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Il Papa torna a Lesbo. Fermiamo questo naufragio di civiltà

Dopo cinque anni, il pontefice è tornato al campo profughi di Lesbo. Non permettiamo, ha detto, che questo “mare dei ricordi si trasformi nel mare della dimenticanza”. Queste realtà le ha definite i lager del 21esimo secolo

Cinque anni dopo papa Francesco è tornato a Lesbo, nel centro di accoglienza e identificazione di Mitilene, dove ci sono ancora le gabbie per i minori non accompagnati, i guardiani armati che perlustrano i container che con scarse strutture igieniche danno un tetto a migliaia di persone che, come ha scritto Nello Scavo su Avvenire di oggi, nella loro quasi totalità avrebbero “quasi tutti” il diritto di ottenere protezione. Dei circa 2.200 presenti, il 72% è di origine afghana, un terzo sono minori”. Il campo che il papa ha appena visitato ha una caratteristica: i suoi container ricordano un villaggio-vacanza, le “casette” sono proprio davanti al mare, quasi sulla spiaggia.

In modo, osserva a Radio Vaticano la responsabile-Europa della Caritas Italiana, di esporli a tutti i venti, a tutte le intemperie che arrivano dal mare. Inoltre è lontano da qualsiasi forma di vita, isolato. Come tutti i campi profughi che si snodano lungo la rotta balcanica. Qui le persone trattenute a lungo senza alcun motivo visto che avrebbero tutti i motivi per ottenere lo status di rifugiato, non hanno nulla da fare. Non possono interagire, né agire in alcun modo. Non possono lavorare, non possono essere o rendersi utili. Possono solo aspettare.

Dunque il papa è tornato in questa Lesbo. Perché? Perché si intensificano i respingimenti mortali, si stanziano fondi europei per costruire muri e barriere di filo spinato, per frenare i profughi, i richiedenti asilo, si acquistano nuove armi per vincere questa guerra con loro, si stanziano ulteriori fondi per convincere la Turchia ad accoglierne ancora di più, “ma non si elabora una politica capace di affrontare le cause profonde di questo problema” ha detto Francesco. Poco oltre la Grecia, in Siria, c’è il campo di al-Hol, dove sono rinchiusi 27mila minori – i famosi figli dell’Isis che nessuno vuole e che vivono senza assistenza sanitaria insieme alle loro madri e gli altri, che portano il totale della popolazione del campo a 70mila.

Lesbo dunque è il centro di comunicazione e contatto tra la catena di campi disseminati in Asia minore, nel Levante, da una parte, e lungo la rotta balcanica dall’altra. Lesbo non è più un avamposto, ma il punto di raccordo di un’emergenza che si snoda di lì fino ai luoghi di elaborazione da una parte e di ricaduta dall’altra della politica europea che non c’è. Dunque lì, a Lesbo, Francesco, è andato a dire che le radici cristiane si piantano o si seccano lì. Nella realtà che unisce Lesbo al confine tra Polonia e Bielorussia, che unisce Lesbo alla Turchia, che unisce Lesbo alla Siria, fino alla Libia. Lì, se esistono, si trovano le radici del cristianesimo europeo.

Non si trovano nelle dichiarazioni di principio custodite a Bruxelles, si trovano sotto questo reticolato di campi profughi che ieri Francesco ha definito i nuovi lager e che fondano una cultura dello scarto e del voltarsi dall’altra parte che penetra nelle città, nelle realtà sociali. Dunque Francesco è tornato tra i disperati e i rimossi di Lesbo perché è convinto che comincia lì la scristianizzazione del Vecchio Continente. Invitando a guardare i tantissimi bambini di Lesbo ha chiesto di trovare il coraggio “di vergognarci davanti a loro, che sono innocenti e sono il futuro. Interpellano le nostre coscienze e ci chiedono: quale futuro volete darci?” Lo chiedono a noi, ha lasciato intendere, perché ai capi dei governi dei Paesi da cui provengono non possono farlo, la loro concezione del mondo e dell’umanità non lo consente. Ma a noi possono farlo? Il papa è parso chiedere se la nostra concezione dell’umanità lo contempli ancora.

Queste realtà che Francesco sta visitando le ha, come ricordato, definite da Cipro i lager del 21esimo secolo. “Questo lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi. La migrazione forzata non è un’abitudine quasi turistica: per favore!”. Queste parole pronunciate ieri sono tornate oggi nell’esplicita e solenne condanna della scelta europea di favorire con lo stanziamento di fondi comunitari la costruzione di nuove barriere, mentre nuove guerre si stanno preparando proprio intorno ai confini europei. I nuovi conflitti che si intravedono non sono stati evocati durante la visita del papa, ma l’hanno accompagnata come un’inquietante marcia di accompagnamento, mentre lui barcollava su sassi malmessi per terra per dare la mano a tantissimi profughi non nell’accogliente sala creata sotto una tenda per le autorità, ma giù, tra i container dove è voluto andare a innaffiare quelle radici cristiane di cui si vorrebbe confermare l’esistenza solo sulla carta o nei reticolati dei confini di alcuni Paesi europei.

(Foto: Archivio)

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