Per un ragazzino dell’epoca lui e gli altri corrispondenti furono personaggi quasi mitologici, modelli di riferimento, al centro del continuo fantasticare di emularne le gesta, nella speranza un giorno di potersi occupare per professione di questioni internazionali. Il ricordo di Igor Pellicciari, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Urbino
Allo storico di professione è evidente che il progresso tecnologico modificherà radicalmente la percezione della storia e più in generale del passare del tempo, anche se non è ancora chiaro in che forma e fino a che punto.
Si pensi a quanto pesano già adesso la qualità delle immagini disponibili su un determinato avvenimento del passato nel condizionarne la stessa narrazione e le sensazioni che suscita.
Ad esempio, proprio il fatto che i filmati d’archivio sul periodo nazi-fascista siano in bianco e nero, di bassa qualità e a scorrimento veloce rafforza un’idea di estrema lontananza di quei fatti da noi.
Insieme ad una convinzione rassicurante – ma pericolosamente illusoria – che proprio per questo essi non potrebbero mai ripetersi oggi.
E’ difficile spiegare ai miei studenti (che per inciso saranno i primi nella storia a disporre nella loro vecchiaia di immagini in altissima definizione del periodo della loro gioventù) cosa abbia rappresentato per la mia generazione Demetrio Volcic ed il giornalismo che a suo tempo ha magistralmente interpretato.
Nell’era dell’informazione pre-digitale fatta di pochi quotidiani classici, monopolio televisivo RAI, programmazione solo pomeridiana-serale, i giornalisti proto-opinionisti (tanto più quelli del tubo catodico) erano personaggi che godevano di una popolarità assoluta e i cui nomi erano noti al pari della formazione della nazionale di calcio.
In assenza di streaming e prima ancora della capacità di catturare immagini e decidere come e se (ri)vederle, i loro reportage venivano ascoltati con la sacralità dell’irripetibile mentre gli articoli sui giornali venivano ritagliati e gelosamente custoditi come preziose reliquie.
Il quotidiano era una sorta di libro in commercio per un solo giorno, da non farsi scappare.
Tra queste semi-divinità, particolare fascino esercitava la categoria dei corrispondenti esteri che raccontavano di paesi inarrivabili di un mondo pre-globalizzato, suscitando fantasie salgariane in una audience ancora poco avvezza a viaggiare all’estero, se non per migrarvi in cerca di lavoro.
Ognuno di loro era fonte unica ed indiscussa sugli avvenimenti della particolare area geografica che copriva quasi in esclusiva, portatore di uno stile narrativo essenziale e scevro di quelle scorie di ridonante stile retorico del periodo fascista che a lungo ha afflitto gran parte del giornalismo italiano.
Fu una fase storica dell’informazione estera che accanto a Volcic, lanciò nomi gloriosi come Jas Gavronski, Igor Man, Sandro Paternostro, per citarne solo alcuni.
Per un ragazzino dell’epoca furono personaggi quasi mitologici, modelli di riferimento, al centro del continuo fantasticare di emularne le gesta, nella speranza un giorno di potersi occupare per professione di questioni internazionali.
Se poi il ragazzino, come chi scrive, era un sangue misto in costante bilico tra mondo italiano e slavo-balcanico, Volcic era anche momento di riscatto; dimostrazione che essere uomo di confine era per il commentatore vantaggio di cui compiacersi piuttosto che aggravante e motivo di disagio, di cui doversi giustificare, a prescindere.
Viene da chiedersi perché quella stagione di glorioso giornalismo internazionale (di cui oggi restano in attività alcuni nomi sacri come Sergio Romano e Paolo Valentino) stia andando a lento esaurimento senza dare vita a una nuova generazione di eredi, al pari di quanto invece avvenuto per il giornalismo che si occupa di politica interna italiana.
Dove non si può certo dire che manchino schiere di professionisti che, a vario titolo e con esito diverso, abbiano comunque raccolto l’eredità ideale delle tribune politiche di Jader Jacobelli o dei commenti di Indro Montanelli, Enzo Biagi, Andrea Barbato.
Il motivo principale, più che nel provincialismo culturale italiano (spiegazione ricorrente cui per il vero si ricorre con troppa facilità) forse sta proprio nella globalizzazione che hanno vissuto le relazioni internazionali, che le ha portate ad essere più esposte al famelico meccanismo dei format televisivi.
Ovvero, a preferire, per motivi di razionalizzazione dei costi di produzione, di affidarsi in outsourcing al lavoro di agenzie stampa internazionali e pochi network di riferimento – smantellando le proprie redazioni estere.
E sostituendo le figure degli storici corrispondenti residenti con quelle di inviati ad hoc, inevitabilmente meno esperti del contesto locale in cui si calano solo temporaneamente.
E’ un trend in crescente ascesa, che mette a repentaglio importanti risultati che furono frutto proprio della ricordata gloriosa stagione del giornalismo internazionale.
Ad esempio, tra le principali eredità lasciate da Volcic vi è stata la istituzionalizzazione di uno storico ufficio Rai di Mosca, con a capo oggi Marc Innaro, che è stato nei decenni vero punto di riferimento per la comunità sempre più nutrita di italiani in Russia; crocevia di iniziative che hanno permesso di rafforzare dal basso l’attività diplomatica portata avanti dall’Ambasciata.
Invitato in una di queste nel 2016 ad intervenire alla presentazione del libro di Gennaro Sangiuliano, ho avuto l’onore di conoscere Demetrio Volcic di persona e di passarci insieme alcune ore di gradevolissima conversazione, ammirandone lucidità di analisi e ironia, rimasta intatta negli anni.
E’ stata quella strana ma bellissima impressione che prende quelle rare volte in cui si avvera un incontro tante volte sperato con un proprio mostro sacro. Con la realtà a superare in meglio la fantasia.