Si può intravedere qualche analogia tra il Pacifico di oggi e quello di ottant’anni fa. Al posto del Giappone c’è la Cina, e al posto delle Hawaii c’è Taiwan. Chi sarà, questa volta, a subire il primo attacco? A ottant’anni dall’attacco a Pearl Harbor, il ricordo del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa
Una domenica di ottant’anni orsono, il 7 dicembre 1941, l’Aviazione imbarcata del Sol Levante attaccava Pearl Harbour, nelle isole Hawaii, di recente poste sotto tutela della Flotta del Pacifico degli Stati Uniti. Questo evento me lo ricordo bene, anche se allora non avevo ancora compiuto cinque anni. Eravamo in guerra, e come tutti i giorni festivi (era lunedì 8 dicembre, festa dell’Immacolata concezione) la famigliola subito dopo pranzo rimaneva un po’ tavola, dove mio papà, sorseggiando il caffè d’orzo, commentava con la mamma i titoli del Popolo d’Italia. Io ascoltavo in silenzio. La notizia dell’attacco giapponese del giorno prima c’era, ma i dettagli li abbiamo appresi solo qualche giorno dopo, quando la nostra radio Marelli al giornale radio delle onde medie trasmetteva la notizia che Italia e Germania, in virtù del Patto d’Acciaio, per solidarietà al Giappone avevano dichiarato guerra agli Stati Uniti quello stesso 11 dicembre.
Ho poi risentito parlare di Pearl Harbour e della Guerra nel Pacifico a nove anni, nel 1946, quando sul piazzale del Castello di Udine, in un cinema all’aperto gremito di militari americani, avevo assistito al film “I fratelli Sullivan”. Erano quei cinque fratelli che, arruolatisi in Marina nel 1942 in memoria di un marinaio amico d’infanzia rimasto ucciso a Pearl Harbour nel corso dell’attacco alla corazzata USS Arizona, erano a loro volta deceduti tutti assieme quando l’incrociatore leggero USS Juneau era stata colpito e affondato nel Pacifico da un sommergibile nipponico. È una storia vera, e ancora oggi negli Stati Uniti i cinque marinai vengono onorati come eroi. Pearl Harbour è poi ritornato a incrociare in modo più approfondito il mio cammino nell’anno accademico 1971-1972, quando, ufficiale pilota frequentatore del corso superiore dell’allora Scuola di Guerra, avevo scelto di partecipare a una tesi di gruppo sulla battaglia del Mar dei Coralli. E con ciò, anche se sono un utile contesto, chiudo con i ricordi.
Oggi dobbiamo seriamente riflettere sul Pacifico dei giorni nostri, ovvero sull’Indo-Pacifico attuale di Joe Biden, che a sua volta deriva dal fallito “pivot to Pacific” del suo sostenitore, mentore e padrino Barack Obama. C’è qualche relazione tra il Pacifico di oggi e quello di ottant’anni fa? Proprio relazione forse no, ma senz’altro si può intravedere qualche analogia. Proviamo, per esempio, a porre al posto delle mire espansioniste del Giappone di allora quelle analoghe, ma camuffate con linguaggio commerciale, della Cina di Xi Jinping. Poniamo, parallelamente, Taiwan, o magari anche Hong Kong, al posto delle Hawaii e di Pearl Harbour. Chi ama la Storia, se vuole può cimentarsi dando un’occhiata ai lunghi dialoghi allora intercorsi tra ambasciatori, capi di governo e capi di Stato, che fino all’ultimo minuto avevano preceduto l’attacco della flotta aeronavale di Yamamoto, confrontandoli con i dialoghi telematici tra Usa e Cina e le velate minacce cui assistiamo anche in questi ultimi giorni.
Vogliamo parlare di sanzioni? Gran parte del dialogo tra sordi di allora aveva come merce di scambio proprio l’abolizione, la riduzione o la modifica delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti al Sol Levante a causa dell’occupazione del Celeste Impero. Su altro, si poteva anche sorvolare, o magari turarsi il naso. Riflettendo anche solo un pochino, è esattamente ciò che sta accadendo in queste settimane. Se poi parliamo di armamenti e di flotte, il Giappone si era preparato per anni, approfittando del lungo periodo di “introversione” degli americani dopo la prima guerra mondiale, dotandosi di un dispositivo militare sproporzionato rispetto alle proprie esigenze di difesa. Oggi la Cina si muove sulla stessa strada, e ha potuto farlo perché con buonismo sospetto Barack Obama, per i motivi che qui non stiamo a ripetere, ha cercato di appannare l’immagine di potenza degli Stati Uniti, appiattendola su quella di chi si limita a tutelare sacrosanti principi universali, che nessuno ha mai fatto propri se non a parole.
Il risultato, sinora, è stato un pericoloso calo di credibilità da parte di competitori, avversari ed alleati. Franklin Delano Roosevelt infine era stato costretto a fare la guerra. Oppure, seguendo l’esempio di tutti i Presidenti democratici negli ultimi cento anni, aveva deliberatamente deciso farla. Barack Obama, con il suo “acting from behind” e mille incertezze, ha sicuramente evitato una grossa deflagrazione, ma ha anche creato nel nostro emisfero quel mare di guai che il maldestro Joe Biden ha rinunciato a dominare, rivolgendo altrove lo sguardo. Nel frattempo la Cina è cresciuta e preme, come aveva fatto il Giappone, e prima o poi dovrà mostrare i denti. Fino a quando potrà farlo solo a parole, senza soccombere per una crisi sociale interna? Purtroppo, già ottant’anni fa, si era visto che le sanzioni da sole non bastano, e che per prevalere alla fine ci sono volute due bombe atomiche. Le analogie con i tempi di Pearl Harbour ci sono, e purtroppo non portano a buoni presagi.
Chiudiamo, parlandone poco e controvoglia, delle teorie della cospirazione e del complotto, che pure hanno avuto e forse hanno ancora il loro peso. Subito dopo Pearl Harbour, ma anche negli anni 70 e perfino nel 2000, ci sono state commissioni di inchiesta o memoriali privati secondo i quali Roosevelt sapeva della lunga preparazione nipponica all’attacco. L’allontanamento preventivo dall’area di ben tre grandi portaerei americane, le uniche che avrebbero potuto reagire con efficacia, ma a rischio di essere affondate, vengono portate a riprova che su Pearl Harbour potrebbe non essere stato detto tutto. In una delle inchieste lo stesso Roosevelt era stato messo nelle condizioni di doversi difendere. È opinione diffusa che anche oggi tra Cina e Usa sia da tempo già in atto una sorta di guerra ibrida, sulla cui realtà uno nega e l’altro accusa, esattamente come allora. La Russia, con la questione Ucraina, fa da elemento disturbatore, ma chi ci guadagna?
Il sospetto che il tutto sia parte di un grande gioco che periodicamente si ripete potrebbe anche risultare plausibile. Chi sarà, questa volta, a subire il primo attacco? Tutti facciamo i voti perché ciò non accada, ma è anche assai difficile essere certi che oggi tutto resterà limitato ai danni di una pur seria pandemia.
(Foto: U.S. Navy)