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La fine del welfare pubblico

Non è certo la globalizzazione ad aver messo in crisi il modello tradizionale di welfare, anche se  l’apertura dei sistemi economici al vento della competizione, ne ha accelerato il processo di revisione. La parabola del welfare state ha avuto un crescendo in parallelo con la formazione dei moderni sistemi di impresa, facendo da contrappeso alle diverse ineguaglianze che un poderoso sviluppo portava con sé. Dalle istituzioni assistenziali della Chiesa, alle opere pie fino alle Casse di Risparmio, la tradizione italiana ha sempre privilegiato la comunità e il territorio. E fin tanto che la misura del mercato, e quindi dello sviluppo, si è mantenuta alla scala locale, il sistema ha funzionato. Poi sia liberali che socialisti hanno reso generali, seppure in modo differenziato, le politiche sociali come complemento allo sviluppo produttivo e all’avanzamento sociale. Da qui visioni diverse hanno contribuito a esaltare o mitigare il senso progressivo di un’economia capitalistica in crescita: dallo Stato minimo, al moltiplicatore keynesiano, all’egalitarismo, fino alla giustizia redistributiva. Occuparsi di salute, di pensioni, di assistenza, di disoccupazione etc. ha sempre mostrato una contiguità con punti di vista politici, in quanto strettamente connessi con la sfera pubblica, con le decisioni di investimento di risorse finanziarie statali, con il consenso elettorale.
La storia italiana a noi più vicina rende ancora più evidente come l’uso politico ed elettorale del welfare possa portare  distorsioni nella copertura dei bisogni che vanno ben oltre gli effetti di inefficienza dei servizi pubblici dovuti al clientelismo assistenziale. Un Paese povero, ma con una forte dinamica di crescita, giovane e con grandi trasformazioni sociali da compiere, come era l’Italia degli Anni ‘50, poteva concepire l’intervento pubblico nel sociale come una totalizzante rassicurazione. La presa in carico del cittadino su tutti i fronti della sicurezza collettiva, bilanciava una grande iniziativa individuale nel lavoro, nell’impresa, nel costruirsi la propria casa. Il mantenere coperture estese anche in presenza di fenomeni nuovi come la diffusione del benessere da un lato e l’invecchiamento della popolazione dall’altro, ha fatto degenerare i meccanismi del welfare pubblico. Mantenendo uno stato inerziale, piuttosto che procedere a un radicale ridisegno del patto fra cittadini e socialità, si è reso il sistema rigido e incapace di assorbire nuovi bisogni. Si è, nei fatti, estesa l’area dell’esclusione, mentre le aspettative di rassicurazione sono andate deluse rimettendo sulle spalle delle famiglie la risoluzione dei problemi più gravi. Il welfare pubblicistico ha deresponsabilizzato la generalità dei fruitori e ha coperto poco i bisogni più gravi (la non-autosufficienza) o più nuovi (famiglie, nuove generazioni, social housing).
La stato della finanza pubblica, in ragione dei paletti imposti dalla moneta unica, ci ha costretto a ripensare il welfare assistenzialistico, per orientarci verso un welfare della responsabilità e della solidarietà. Il problema si sposta, quindi, dalla semplice revisione di un ”modello” programmatico alla canalizzazione delle diverse energie esistenti in un disegno equilibrato e sostenibile finanziariamente. E in questo quadro che il no profit ricopre ormai un ruolo decisivo. In luogo del solo monopolio statalista Il cambiamento di ottica riguarda, infatti, il riconoscimento di una pluralità di offerte possibili, di cui quella del privato sociale appare come  risorsa strategica.   
Ma, il problema non è solo di risorse finanziarie, ma del loro utilizzo e della loro articolazione. Secondo la Banca centrale europea per la sanità (dati 2006) spendiamo il 7% del Pil (Francia 7,2%, UK 7,1% e Germania 6,3%), per la protezione sociale il 18,2% (Francia 22,3%, UK 15,4% e Germania 21,6%), per l’istruzione il 4,5% (Francia 6%, UK 6,1% e Germania 3,9%). Se sommiamo tutto siamo al 29,7%, qualcosa in più del 28,6% britannico.  Nel porre al centro del nuovo welfare la persona e le responsabilità individuali, nel valorizzare i comportamenti diffusi di tipo virtuoso dobbiamo, tuttavia, tener conto del carico già esistente su quella micro-macchina del welfare che è la famiglia. Solo per attività di care-giving a sostenere la bassa o non auto-sufficienza gli italiani pagano circa 10 miliardi l’anno, quasi lo 0,7% del Pil.
È un tale dualismo  che oppone lo sforzo personale all’intervento di sistema (il grande ospedale, gli ammortizzatori sociali, la previdenza ordinaria e poi integrativa, le liste, le burocrazie, etc.) ha  lasciato un grande spazio d’intervento a chi lavora in modo organizzato e imprenditoriale, in una logica di umanizzazione, di aderenza a bisogni estremi, di vicinanza solidale. La responsabilità soggettiva anche quando genera processi virtuosi di risparmio e di appropriatezza nell’uso di risorse pubbliche, finisce per esasperare la segmentazione del sociale, sfocia nella centratura su interessi di piccola gittata. Il terziario sociale esalta, invece, l’aggregazione collettiva, presidia le connessioni,  arricchisce il territorio attraverso reti di  sostegno e aiuto, offre alle istituzioni locali  prestazioni con elevata flessibilità operativa.
L’autonomo impegno privato, personale e solidale va rimesso nel gioco tentando un’operazione di “filiera” capace di dare più organicità ai  vari segmenti in cui si articolano le politiche sociali. Il protagonismo dell’individuo responsabile dentro un welfare dell’organizzazione plurima, potrebbe essere la chiave di un profondo rinnovamento che imponga alla politica di fare un passo indietro dando più spazio all’attivismo della comunità.
Oggi, salute, lavoro, assistenza, istruzione presentano il profilo di politiche segmentate che il singolo o la famiglia deve  ricostruire rincorrendo filiere spesso nebulose, proposte dal settore pubblico, da integrare – se insufficienti – con altre offerte del terziario sociale, del volontariato, del privato, delle reti familiari e amicali.
Se escludiamo le fasce sociali dell’indigenza, della povertà e della marginalità, il ceto medio, corpo centrale maggioritario della società, impiega molte risorse finanziarie e di tempo, accumula disagi dovuti all’opacità dei percorsi e alla scarsa visibilità delle prestazioni esistenti. In questo l’area del no profit da il contributo maggiore, ma è ancora compressa dai meccanismi di convenienza presenti nel lavoro pubblico. Meglio impiegato in una Asl che operatore dei servizi domiciliari. Con 600 mila occupati siamo ben al di sotto del terziario sociale degli altri Paesi europei (in Germania e Regno Unito gli occupati sono 1,4 milioni, in Francia 1 milione),
Se la misura quantitativa dell’impegno pubblico nel welfare non è così distante da quella degli altri Paesi europei comparabili, e se le risorse non sono incrementabili, la possibilità di mantenere i livelli di benessere sta proprio nella capacità di eliminare sprechi e ridondanze, rendendo ciò che oggi è complementare, come servizi effettivamente fruibili e perfettamente integrati nel sistema di intervento sociale.
La natalità non è determinata solo dai livelli di reddito, dall’occupazione femminile, ma anche dall’organizzazione scolastica e para scolastica, dall’aiuto agli anziani non autosufficienti, dalla disponibilità di spazio domestico e di servizi per l’abitare etc. In questo senso, il nuovo welfare dovrebbe certamente coinvolgere le risorse sociali (come già succede), ma con il valore aggiunto dell’integrazione, della regolazione e dell’orientamento. L’intervento per settori dovrebbe  dar spazio a filiere di azioni per tipologie di bisogno.
Una tale impostazione, impensabile a livello nazionale, porterebbe effettivamente in luce il protagonismo del territorio, attuando il federalismo fiscale nei modi più funzionali al miglioramento delle prestazioni. Un’integrazione che potrebbe ritrovare sul territorio luoghi specifici di riferimento, operativi e simbolici. Oggi, gli strumenti informativi e digitali, ma anche nuove polarità urbane per funzioni sociali plurime gestite dal terziario sociale, potrebbero materializzare con chiarezza la direzione in cui intende muoversi il nuovo welfare.
 


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