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Gli appelli di Mattarella e i veri problemi della politica attiva del lavoro

“È un dovere inderogabile delle istituzioni a ogni livello combattere la marginalità dovuta al non lavoro, al lavoro mal retribuito, al lavoro nero, alle forme illegali di reclutamento che sfociano in sfruttamento”, ha detto Mattarella. L’occhio del governo sul dossier lavoro

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato nelle scorse settimane appelli molto seri e motivati sulla questione del lavoro e della “povertà da lavoro”, viste le basse retribuzioni di cui possono godere varie persone in vari lavori. Citiamo solo un brano plastico dei vari appelli lanciati dal Presidente Mattarella: “È un dovere inderogabile delle istituzioni a ogni livello combattere la marginalità dovuta al non lavoro, al lavoro mal retribuito, al lavoro nero, alle forme illegali di reclutamento che sfociano in sfruttamento”. Ancora più plasticamente il Capo dello Stato ha dichiarato che “il lavoro sarà la misura del successo del Pnrr”. Sostanzialmente, tutti i partiti sembrano essere presi invece dal problema di chi sarà il successore di Mattarella o di piantare bandiere e bandierine su vari aspetti della politica del day by day e in pratica nessuno ha colto l’importante significato di questi forti appelli.

Già Voltaire scriveva nel Candide: “Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno”. E non è mai abbastanza chiaro di quanto un Paese come l’Italia abbia bisogno del fattore lavoro. Eppure, il cantiere del lavoro, e del governo del mercato del lavoro, anche per passare dalla solita difesa statica dei singoli posti di lavoro ad una più produttiva difesa dinamica del lavoro come tale, sembra come furono negli anni passati i cantieri dell’autostrada Salerno Reggo Calabria che sembrava sempre si aprissero ma non si aprivano, oppure si aprivano e duravano poco con i lavori sempre lasciati a metà. Eppure, per l’Italia il lavoro è una risorsa ancora più cruciale rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei, visto che siamo penultimi nella graduatoria del tasso di attività, cioè delle persone in età da lavoro che effettivamente hanno o cercano un’occupazione. Il nostro tasso di attività è sotto di oltre dieci punti rispetto alla media degli altri paesi europei. Il tasso di occupazione è sceso ulteriormente dal 59% del 2019 al 58,1% del 2020, a fronte di un dato ben più rilevante degli altri paesi europei che segna una discesa dal 68,5% al 67,7%. Quanto al tasso di occupazione femminile poi è sceso dal 50,1% al 49% a fronte di un dato europeo nel 2019 del 63,1% sceso al 62,5% nel 2020.

Affinché la crescita del Pil non sia un fuoco fatuo che si limita all’effetto rimbalzo degli oltre sei punti di quest’anno e ad uno minore l’anno prossimo, e non rischi a tornare ad essere simile a quello zero virgola che è stato negli ultimi 25 anni, è fondamentale che un numero maggiore di soggetti uomini, e ancor più donne, partecipi alla forza lavoro. Il governo, come è noto, sta investendo moltissime risorse in una condizione in cui il debito pubblico supera largamente il 150% del Pil, per il welfare, compreso quello finalizzato al lavoro, senza pensare però a quello che gli economisti più moderni chiamato workfare, cioè quello strettamente legato all’attivazione del fattore lavoro.

Senza contare i nove miliardi circa annui dispensati per il reddito di cittadinanza, c’è il costo legato alla partita aperta dal governo degli ammortizzatori sociali che diventano praticamente eterni. La proposta di ammortizzatori del ministro Orlando capovolge infatti lo schema abbastanza virtuoso del jobs act di Renzi e allarga l’utilizzo delle casse integrazioni a tutti i settori, estendendolo anche alle aziende che chiudono e falliscono, diversamente dalla finalità originaria della cassa integrazione. In sostanza, questo avviene grazie al modello delle casse integrazioni in deroga utilizzato nel corso della crisi covid e prorogata di fatto ad libitum. Si riducono inoltre i contributi versati per accedere all’indennità di disoccupazione come la Naspi mentre aumentano la durata e gli importi della prestazione, il tutto a carico dei contribuenti. Per ognuno dei primi tre anni, gli oneri sono stimati attorno a circa gli otto miliardi. Tra i lavoratori che sono in cig, in Naspi, i beneficiari del reddito di cittadinanza o degli anticipi di pensione siamo ad oltre quattro milioni di soggetti che sono pagati per non lavorare sostanzialmente o se va bene per lavorare in nero.

Eppure le imprese hanno dimostrato, così come i lavoratori in essere di saper rispondere al meglio alla pandemia anche con lo sviluppo di nuove tipologie di rapporti di lavoro tra cui, come è noto, il telelavoro, inteso nella forma più passiva, o lo smart working intesa in una forma tendenzialmente più creativa, e andrebbe colto il messaggio importante che viene da questa reazione delle imprese, soprattutto manifatturiere, rappresentate oggi da una realtà molto attiva come la Confindustria di Bonomi, così come il messaggio che proviene dai lavoratori, intesi nella loro qualifica, un po diversa da quello con troppe tinte da welfare assistenzialistico che viene dai sindacati che pur li dovrebbe rappresentare. È noto a tutti lo sviluppo in atto e quello sempre più progressivo grazie anche agli investimenti previsti dal Pnrr, degli strumenti digitali.

Ebbene, cosa manca per sancire finalmente che nelle fasi di cassa integrazione almeno una parte dei cassintegrati, a cominciare da quelli le cui imprese non hanno buone opportunità di ripresa o rinascita, siano sottoposti a corsi di formazione e riconversione professionale per via digitale, così come dovrebbe finalmente avvenire per una parte cospicua dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Analogamente, dovrebbero essere attivate forme serie ed appropriate per la ricollocazione dei lavoratori e per la profilaizone e la formazione o riconversione dei disoccupati, soprattutto giovani, ma non solo. A questo fine, servirebbe una parificazione, una forma di emulazione competitiva fra i centri pubblici per l’impiego e le agenzie private per il lavoro, che conoscono I mercati territoriali di riferimento e dispongono di un know how ben più elevato di quello dei nostri obsoleti e stantii centri pubblici per l’impiego. È vero che sulla carta non siamo all’anno zero, perché ci sono i 4,4 miliardi da qua al 2026 per quella che viene definita GOL (garanzia di occupabilità dei lavoratori).

Però il ministro Orlando ha ritenuto di scegliere la via di distribuire alle regioni – per certi versi purtroppo – che hanno competenza concorrente in materia di lavoro, i finanziamenti a valere sulla GOL. Peccato che per un verso varie regioni, soprattutto al Sud, si siano rivelate “fichi secchi” quanto alla formazione e riconversione dei lavoratori, così come sono fichi secchi i centri pubblici per l’impiego su cui si punta per la GOL. Per i centri pubblici per l’impiego occorrerebbe una vera rivoluzione organizzativa e tecnologica e non è che basti certo l’aumento previsto dal Pnrr dei dipendenti da 8.000 a 20.000. Ebbene, fare le nozze per il lavoro con questi due fichi secchi non genera certo buoni matrimoni. Questo vale sia per la formazione che per la riconversione professionale e ancor più per la ricollocazione dei lavoratori.

Mi sembra il caso che a questo punto un fior di economista come il presidente Mario Draghi che, anche come allievo di due economisti molto attenti alle questioni del lavoro come Federico Caffè e il premio Nobel Franco Modigliani, metta un occhio attento su questo dossier, perché il rischio è che ci ritroviamo con la forza lavoro più bassa e penultima fra i Paesi europei anche fra qualche anno, e che continui quel mismatch fra domanda e offerta di lavoro secondo il quale in presenza di tanti disoccupati ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro non coperti. Senza una vera e seria politica attiva del lavoro, che punti sui soggetti e sulle formule più appropriate e più moderne, infatti, la questione del lavoro non può avere una seria soluzione.

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