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Leaderismo e tribalismo, ecco gli ostacoli alla democrazia africana

In Africa la stagione dei golpe non è finita, ma si sviluppa. E l’Unione Africana può ancora giocare un ruolo decisivo nel progresso democratico del Continente nero. L’analisi di Riccardo Cristiano

Quello di padre Fidèle Ingiyimbere è un felice ritorno su La Civiltà Cattolica e visto che è il secondo articolo che firma c’è da sperare che questo sia l’inizio di una collaborazione costante per l’importanza e accessibilità del saggio, cruciale, sulle responsabilità dell’Unione africana davanti al ritorno della stagione dei golpe africani.

Più che di export della democrazia qui si parla della sua autoproduzione e dei meccanismi che oggi, dopo la stagione coloniale, la ostacolano. Ed è un lavoro di estremo interesse che ci porta nel profondo delle contraddizioni tra società e strutture politiche. Colpisce l’osservazione di partenza: recentemente oltre al “processo golpista” in Sudan, ancora non archiviato, ci sono stati golpe di Ciad, Mali e Guinea. Dunque non solo la stagione dei golpe non è finita, ma si sviluppa “nella zona della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), ossia in una delle Comunità regionali che ha messo in atto forti misure per consolidare la democrazia e il buon governo”.

L’Organizzazione dell’Unione Africana (poi diventata Unione Africana) dopo l’epoca della guerra fredda, si sforzò di spingere i paesi africani verso la democrazia, registrando per circa un decennio dei progressi. Riepilogando i passi compiuti nel recente passato il saggio consente di sistematizzare un lavoro oscuro per molti ma importante: “tra le misure più emblematiche e di valore normativo, sono da menzionare la Convenzione di Lomé del 2000; l’Atto costitutivo dell’Unione Africana del 2000; e il Protocollo sugli emendamenti all’Atto costitutivo del 2003, così come la Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance del 2007. Ma anche prima del 2000 c’erano stati documenti importanti che incoraggiavano l’istituzione di procedure democratiche come mezzo per cementare la pace e la sicurezza, al fine di consentire lo sviluppo economico e sociale di cui l’Africa ha tanto bisogno. Oggi esiste un’ampia giurisprudenza in materia, con decisioni dell’Ua e del suo Consiglio di pace e sicurezza”.

Nonostante tutto questo arsenale normativo e giuridico, a partire dall’anno 2000 assistiamo a una recrudescenza dei golpe. Dunque è impossibile non chiedersi le disposizioni possano contenere e scoraggiare i colpi di Stato. L’analisi di padre Idèle Ingiyimbere fa emergere una drammatica continuità tra il caso africano e quello, attiguo, arabo: dopo la decolonizzazione si è aperta la stagione del multipartitismo ma ben presto un processo di identificazione tra Stato e partito, all’ombra dell’influenza sovietica, ha condotto al modello del partito unico.

Questa deriva – e anche qui di può dire che la constatazione vale per entrambi i casi – è derivata soprattutto dalla necessità di fare affidamento sulla solidarietà tribale. Tutto questo non poteva che portare al nepotismo. La complessità sociale non assunta in un quadro di autentica cittadinanza non poteva che portare a questo esito infausto. La complessità africana, chiarisce il saggio, è soprattutto etnica, e quindi i golpe sono stati il solo modo per sostituire un’egemonia etnica con un’altra e quindi ottenere ciò che altri si era accaparrati.

“Va anche notato che, dagli anni delle indipendenze fino a oggi, ci sono stati più di 200 colpi di Stato (tra riusciti e falliti). Stef Vandeginste, professore di diritto all’Università di Anversa, osserva che dal 1956 al 2001 ci sono stati 80 colpi di Stato riusciti, 108 falliti, con almeno 30 Paesi che hanno sperimentato un colpo di Stato riuscito. E Solomon Dersso, fondatore di Amani Africa Media and Research Services, segnala che tra il 1952 e il 2014 ci sono stati 91 colpi di Stato riusciti. Tuttavia, l’uso dei colpi di Stato in Africa non era semplicemente dovuto a fattori interni ai Paesi: anche l’elemento continentale vi ha contribuito in qualche misura. Infatti, il rapido raffreddamento dell’entusiasmo democratico e multipartitico che aveva caratterizzato la lotta per l’indipendenza non turbava troppo l’Oua, dal momento che lo Stato-partito era la regola in tutto il continente e la democratizzazione non figurava tra gli obiettivi di questa organizzazione”.

All’Organizzazione per l’Unione Africana interessava più l’impegno anti coloniale dei governi che la democrazia. La guerra fredda favoriva un calcolo non dissimile: più importante la “lealtà” che la forma. Con la caduta del muro di Berlino il quadro internazionale è profondamente cambiato. E nel giro di pochi anni si è arrivati alla Dichiarazione di Lomè contro i cambi di governo antidemocratici del 2000: questa dichiarazione si apre con la constatazione che i colpi di Stato stanno riemergendo in Africa e che i cambiamenti governativi anticostituzionali – che si pensava di aver eliminato per sempre – sono un pericolo per la pace e la sicurezza del continente. La Conferenza dei capi di Stato e di governo ricorda poi le diverse iniziative già intraprese e propone un quadro per una reazione dell’Oua di fronte ai cambiamenti di governo anticostituzionali in quattro punti, che arrivano a indicare oltre ai paletti democratici e la centralità di elezioni libere ed eque anche il cruciale passaggio della sanzioni, già teorizzato a Lomé ed ora inasprite e previste in tempi certi nel paragrafo sulle sanzioni in caso di cambiamento di governo anticostituzionale. Qui si parla, ovviamente anche del possibile emendamento delle Costituzioni o degli strumenti giuridici che leda i princìpi dell’alternanza democratica. Ed è questo il passaggio dalle affermazioni teoriche alla realtà politica. Ma è davvero così?

“Questa aggiunta sembra essere rivoluzionaria, ma in effetti rimane ambigua riguardo alla determinazione di quale tipo di emendamento e revisione ostacoli l’alternanza democratica. Torneremo su questo punto. Per il momento, facciamo notare che la Carta inasprisce le misure punitive contro gli autori di un cambiamento di governo anticostituzionale quando fallisce la via diplomatica. Si prevedono la sospensione immediata dello Stato membro dall’Ua, pur rimanendo l’obbligo di onorare i suoi impegni verso di essa, e sanzioni economiche e giudiziarie contro gli autori. È anche previsto il divieto, ai responsabili, di partecipare a elezioni eventualmente organizzate per ristabilire l’ordine costituzionale.”

Ciò che emerge è che il problema sta nel numero di mandati presidenziali possibili. Se l’orientamento panafricano era per prevedere due mandati per un periodo di tempo variabile tra i quattro e i sette, gran parte dei nuovi casi di cambiamento anticostituzionale afferiscono a Paesi dove si è registrato un elevamento del numero di mandati possibili, mentre dove ciò non è accaduto quasi mai sono stati tentati dei golpe. Appare così evidente la prima lacuna nella struttura normativa dell’Unione Africana. Mentre essa si mostra severa e intransigente nei confronti dei colpi di Stato di tipo militare o di altre soluzioni violente per cambiare il governo, non prevede nulla per quelli che molti chiamano “colpi di Stato costituzionali”, messi in atto per restare al potere a tempo indeterminato. Dunque emergono due domande: perché in assenza di un limite di mandato emergono tentativi di cambiamento anticostituzionale? E ancora: potrebbe l’Unione Africana includere i limiti mandato nella sua normativa?

La prima risposta è sulla perdurante natura tribale della dialettica politica. La seconda risposta è altrettanto chiara: “attualmente, è difficile credere che questo possa accadere. Mentre c’è stato un cambio di paradigma dall’Oua all’Ua, che ha spostato l’attenzione dalla liberazione dell’Africa e dalla lotta contro l’imperialismo e il neocolonialismo alla democratizzazione e allo sviluppo, gli attori non sono cambiati. Coloro che hanno adottato questa narrativa democratica e di sviluppo lo hanno fatto per ragioni pragmatiche piuttosto che per convinzioni personali, e sotto la pressione sia internazionale sia interna. Così sono riusciti a mettere in piedi sistemi elettorali formalmente democratici nei quali chi è al potere non perde mai, per soddisfare le esigenze democratiche di facciata, senza un reale e profondo rinnovamento. Sono gli stessi leader a tempo indeterminato di ieri che si sono trasformati in paladini della democrazia. In tale contesto, è difficile immaginare che essi mettano in pratica una misura che li allontanerebbe dal potere che vogliono mantenere a tutti i costi: sarebbe come tagliare il ramo su cui sono seduti”.

L’articolo si conclude guardando a quanto accade che spiega perché la speranza di cambiamento sia nei movimenti giovanili, anima della società civile. E anche qui emerge nel lettore un qualcosa di molti simile con quanto accade in numerosi paesi dell’attiguo mondo arabo.



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