I ribelli del Tigray annunciano la non belligeranza. Vogliono anticipare davanti all’Onu il premier Abiy Ahmed e spingere un modello negoziale che vogliono Usa e Ue
Quando Debretsion Gebremichael, presidente della regione autonoma del Tigray, che è in guerra con la federazione etiope, ha annunciato il ritiro dal fronte la domanda è stata: perché? La guerra procede a scatti dal novembre 2020 e ha procurato morti e crisi umanitaria (come tutte le guerre d’altronde). La superiorità tecnica di Addis Abeba c’è (com’è logico che sia), tuttavia l’equilibrio di forza era diventato evidente quando qualche settimana fa le unità del Fronte di liberazione del Tigray erano arrivate a duecento chilometri dalla capitale.
In quel momento la stampa mainstream aveva ripreso una momentanea concentrazione sulle vicende del Sud del Mondo, occupandosi così di Etiopia. Dopo pochi giorni, però, è tornato il silenzio, anche perché il conflitto è al buio, il governo ha tagliato internet e i giornalisti sul campo non vanno per ragioni di sicurezza. Però la guerra era andata avanti e, per quanto noto, portato i governativi a bloccare i tigrini, che d’altronde avevano scelto di non cercare mosse azzardate verso Addis Abeba. C’era stata anche l’attività diplomatica molto spinta degli Stati Uniti (che il premier Abiy Ahmed (nella foto) accusa di essere troppo sbilanciati verso il Tigray), in parte dell’Unione europea e di alcuni attori del Golfo.
E dunque ritirarsi è diventata l’unica soluzione per il Tigray? Possibile, perché ora la partita si vince più sulla narrazione che porta ai negoziati che sul campo. La mossa di Debretsion è arrivata non casualmente poche ore prima di una riunione in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe parlato anche di Etiopia, e dopo che il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu aveva deciso di aprire una commissione di inchiesta per crimini di guerra commessi da entrambe le parti in questo anno di conflitto (da notare che Cina e Russia hanno votato contro a questa decisione rivendicando il principio della non interferenza secondo un modello di mondo che intendono portare avanti in alternativa a quello occidentale che guida tutte le istituzioni globali).
Debretsion ha comunicato il ritiro e l’avvio della non belligeranza con una lettera scritta inviata direttamente al segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Il tigrino si dichiara pronto a negoziare e così facendo passa completamente la palla in mano ad Abiy. Ora decidere spetta all’ex Premio Nobel per la Pace, pochi anni fa modello di leadership e di governance in un Paese che doveva fare da modello democratico per l’Africa. Se il premier accetterà, dimostrerà di non essere in grado di controllare (con la forza) quella provincia in cui gli ex leader etiopici si sono ritirati; se andrà avanti con la guerra dimostrerà di essere spietato e di aver davvero pianificato l’attacco da tempo aspettando l’occasione adatta (come ha già ricostruito il New York Times).
Abiy sa di avere a disposizione mezzi per schiacciare i tigrini (per esempio i droni turchi, il cui utilizzo ancora una volta ha fatto da game changer sul campo e sta continuando a usarli anche dopo l’annuncio tigrino). Ma sa anche che deve recuperare terreno con il mondo che conta, Usa e Ue, perché la guerra non è piaciuta a quelli che sono stati i principali interlocutori negli anni del suo governo. Interlocutori cruciali per lo sviluppo del suo Paese e ora più che mai interessati a tutelare forme di stabilità e a risolvere crisi attraverso azioni dialoganti, diplomazia e asset democratici; mentre in Africa si moltiplica l’insicurezza, tornano i colpi di stato, cresce la presenza di modelli rivali come quello russo, cinese o turco.
Gli sviluppi etiopici racconteranno anche di questo scontro globale tra modelli. Abiy rinforzato dai droni turchi (e iraniani e emiratini) e da spinose alleanze regionali (come quella con l’Eritrea, ma anche con Turchia, Emirati Arabi, e poi Russia e Cina); Debretsion solo o quasi in Tigray che cerca la sponda dell’Onu (più per tattica, necessità, che per volontà e ispirazione sincera). Il premier è consapevole che per salvarsi davanti agli occhi dell’Occidente adesso dovrà accettare condizioni che i tigrini detteranno, da una no-fly zone immediata a garanzie di sopravvivenza, ma sa anche che accettare il dialogo gli sarà utile per salvarsi dopo aver condotto una guerra sanguinosa.