Nel cyberspazio, la soggettività dell’approccio utilitaristico è particolarmente acuta. La complessità dell’ambiente informativo in continua evoluzione spesso rende impossibile prevedere l’entità delle conseguenze immediate e lontane di un’azione individuale e la natura virtuale di questa azione cambia, almeno soggettivamente, il suo status morale. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
Ovviamente, l’etica della rete deve essere principalmente di natura comportamentale. Essa ha il compito di fungere da strumento per prendere decisioni in situazioni moralmente difficili. Tuttavia, finché l’etica della rete è vista solo come uno dei meccanismi di autoregolamentazione normativa di Internet basata sull’ethos formatosi spontaneamente del cyberspazio, mancherà la scala critica per valutare questo comportamento, e quindi cambiarlo sulla base di un valutazione reale.
Pertanto, l’etica della rete ha bisogno di una giustificazione filosofica e teorica utilizzando la metodologia etica tradizionale, che dovrebbe aiutarla a evitare la soggettività. Allo stesso tempo, i due principi più comuni nella costruzione dell’argomentazione etica – utilitarista e deontologico – si scontrano con grandi difficoltà, una volta applicati all’analisi della comunicazione Internet.
Per cui, le teorie etiche utilitaristiche, come noto, si concentrano sulla fattibilità pratica del comportamento in termini di raggiungimento del bene sociale, considerando moralmente giustificate quelle azioni che portano il massimo beneficio al numero maggiore di persone. Nonostante ciò, di norma, qualsiasi azione ha conseguenze sia positive che negative, molte delle quali sono impossibili da prevedere (e ancor di più da valutare) in anticipo.
È ancora più difficile rimanere imparziali nel determinare quali interessi dovrebbero essere compromessi.
E se è così, allora l’applicazione del “principio del massimo vantaggio”, che costituisce la base dell’utilitarismo, questo come criterio di valutazione morale dà solo risultati molto approssimativi e tutt’altro che attendibili, il che significa che non può pretendere di essere oggettivo.
Nel cyberspazio, la soggettività dell’approccio utilitaristico è particolarmente acuta. La complessità dell’ambiente informativo in continua evoluzione spesso rende impossibile prevedere l’entità delle conseguenze immediate e lontane di un’azione individuale e la natura virtuale di questa azione cambia, almeno soggettivamente, il suo status morale. Ciò è dovuto al fatto che gli individui che interagiscono in un ambiente virtuale tendono a percepire come potenzialmente immorali solo quelle azioni che interessano oggetti fisici, tangibili e portano ad un risultato facilmente osservabile. Tuttavia, la natura immateriale dell’informazione crea una sensazione ingannevole che tutto ciò che accade nell’infosfera avvenga come per “divertimento”, senza esercitare alcuna influenza sulla realtà. In questo modo, l’azione nel cyberspazio è soggettivamente percepita in modo diverso rispetto alla stessa azione nel mondo “reale”, e quindi molto spesso una persona non è in grado di valutare adeguatamente le conseguenze delle proprie azioni.
Inoltre, molte delle azioni compiute nel cyberspazio, infatti, non producono alcun effetto visibile, il che permette loro di rimanere non solo impunite, ma spesso anche nemmeno notate, cioè dal punto di vista delle conseguenze sembrano essere inesistenti, invece coinvolgono il condizionamento di milioni di utenti impreparati: dal bambino ingenuo e innocente, al “grande” che ha degli scopi ben precisi. Pertanto, l’uso di un approccio consequenziale per valutarli, che si concentra sui risultati di un atto, e non sui suoi motivi, perde il suo significato e infatti non produce alcun effetto visibile, il che permette ai navigatori dolosi di rimanere non solo impuniti, ma spesso neppure ricordati dal punto di vista delle conseguenze, come se non esistessero. Per cui, l’uso di un approccio consequenziale per valutarli – che si concentra sui risultati di un atto, e non sui suoi motivi – perde il suo significato.
A differenza di quelle utilitaristiche, le teorie etiche deontologiche attribuiscono particolare importanza alle regole formali universali di interazione, indipendentemente dal risultato della loro osservanza in una particolare situazione. Queste regole, formulate sotto forma di leggi morali universali (le più note delle quali sono la “regola d’oro dell’etica” e l’“imperativo categorico”), servono come prerequisito per l’emergere di prescrizioni specifiche che stanno alla base dell’etica normativa. L’assolutismo delle esigenze morali proposto dalle teorie deontologiche che insistono sull’inammissibilità della deviazione dagli imperativi morali, sconfina talvolta nel rigorismo ed entra in conflitto con la pratica reale dell’interazione intersoggettiva, che di regola, è un obiettivo-razionale e, in Internet, tecnologico.
L’approccio deontologico invece deve essere in grado di conferire un carattere universale e vincolante alle norme morali.
Quattro punti di etica dell’informazione sono considerati i passi deontologici fondamentali che governano la sfera della comunicazione virtuale: vale a dire, il principio della privacy, il principio di accessibilità, il principio di inviolabilità della proprietà privata e il principio di accuratezza dell’informazione.
Come si evince, questi sono i principi preferiti del liberalismo (almeno i primi tre), e sono abbastanza coerenti con lo spirito dell’ideologia della rete. Inoltre, nell’etica della rete si è diffuso un approccio che considera il rispetto dei diritti umani come il principale principio deontologico della comunicazione virtuale. Questi diritti morali inalienabili si basano sul nostro status di esseri intelligenti, degni di rispetto, che rappresentano un valore intrinseco, e derivano dalla seconda formulazione dell’imperativo categorico, che sottolinea che gli esseri umani sono un obiettivo in se stessi. I diritti umani registrano i modelli di comportamento più significativi che dovrebbero essere applicati in relazione agli esseri umani. I diritti morali fondamentali relativi alla sfera dell’informazione includono il diritto di ricevere informazioni, il diritto di esprimere la propria opinione e il diritto alla privacy.
Allo stesso tempo, nel processo di comunicazione virtuale, non sono rare le situazioni in cui diversi diritti e obblighi morali entrano in conflitto. Basti citare la contraddizione tra la libertà di parola e il desiderio di proteggere la moralità dei minori, tra l’inviolabilità della vita privata e diritto della società alla sicurezza, tra diritto di proprietà privata e principio di accessibilità, informazione, ecc.
È qui che sorgono i dilemmi morali più delicati, indicando che l’etica della rete non può essere ridotta a un insieme di alcune norme universali applicabili a qualsiasi situazione. Piuttosto, si tratta di norme conflittuali che devono essere riconciliate ed equilibrate. Ciò mina la fattibilità di un approccio strettamente deontologico che non comunica alcunché sul conflitto degli obblighi morali.
Il concetto di “etica del discorso”, di scuola tedesca, è chiamato a superare le carenze dei due approcci precedenti. L’etica del discorso, da un lato, stabilisce regole formalmente universali , grazie alle quali è possibile sostanziare norme morali. Questo prescrive di tener conto delle possibili conseguenze dell’introduzione di tali norme, affinché le consenta di colmare il divario tra etica deontologica ed etica consequenziale, coniugando il principio del dovere con il principio di responsabilità. Allo stesso tempo, il principio cardine dell’etica discorsiva – consenso razionale – presuppone implicitamente che chiunque entri in comunicazione per raggiungere la comprensione reciproca, non può non concedere ad altri comunicatori gli stessi diritti che lui stesso rivendica, riconoscendo così tutte le persone come partner alla pari; e grazie a ciò i disaccordi devono essere superati esclusivamente in modo argomentativo. In tal senso, l’etica del discorso consente non solo di descrivere la procedura per raggiungere un accordo su questioni morali, ma anche di derivare metanorme universali di giustizia e uguaglianza, e non come mere regole empiriche di comportamento.
La natura fondamentalmente dialogica dell’etica del discorso la rende più adatta per l’analisi morale e filosofica dei moderni processi di comunicazione (compresi quelli mediati da un computer), poiché il suo principio fondamentale può, da un lato, essere utilizzato per descrivere la “situazione ideale di comunicazione “, stabilendo così un punto di riferimento morale a cui ogni discorso pratico dovrebbe tendere. D’altro canto, serve come criterio per la valutazione morale di questo discorso. Grazie a questo, l’etica discorsiva può essere considerata come strumento universale della comunicazione, che può (e dovrebbe) aderire a tutte le persone che interagiscono in una situazione di conflitto di interessi, indipendentemente dall’ambiente in cui avviene la loro interazione. Pertanto, l’etica del discorso serve non solo come strumento per chiarire e corroborare le norme morali, ma anche come strumento per la loro legittimazione nella società dell’informazione, ma pure quale strumento per la loro giustificazione nella società dell’informazione.