Conversazione con padre Claudio Monge, che vive a Istanbul dove è Superiore della comunità domenicana, oltre ad essere consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Un dialogo che aiuta a entrare nelle pieghe di una situazione che dovrebbe preoccupare più di quanto non appaia, dal momento che la Turchia è uno dei gangli decisivi per tutto il blocco eurasiatico
Potrà sembrare strano, ma quello natalizio per la Turchia è un tempo importante in questo 2021, visto il bisogno che ha il Paese di sperare, adesso. Dai tempi del fallito golpe si parla di Turchia per dare ragguagli sulla virata autocratica, sulle interminabili e inquinanti purghe erdoganiane. Ma oggi purtroppo non c’è solo questo sul piatto turco. Non sempre lo si legge, ma è evidente che la Turchia è ormai un Paese a forte rischio default. La pandemia ovviamente ha avuto il suo ruolo, ma i problemi recenti si sono aggravati davanti alla cura economica voluta da Erdogan, che nonostante la svalutazione galoppante della lira turca impone una riduzione dei tassi di interesse anche al costo di rimuovere quattro direttori della Banca centrale in due anni e che sta portando il Paese su un crinale a dir poco spaventoso che neanche gli ultimi interventi sono riusciti a mutare. Parlarne con padre Claudio Monge, che vive a Istanbul dove è Superiore della comunità domenicana, oltre ad essere consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, aiuta a entrare nelle pieghe di una situazione che dovrebbe preoccupare più di quanto non appaia, visto che la Turchia non è una Repubblica delle banane, ma uno dei gangli decisivi per tutto il blocco eurasiatico.
Il suo discorso non può che partire da quelli che definisce gli errori del passato, quando l’Europa, respinta di fatto la Turchia per le manchevolezze in materia di rispetto dei diritti umani, le ha affidato la gestione del fronte più grave e ampio dell’enorme questione migratoria, che riguarda milioni di profughi. Siria, Iraq, Afghanistan attraverso i campi iraniani, sono tutti teatri di crisi che si riverberano direttamente sulla Turchia. Dai dati che padre Monge snocciola a memoria si evince che questo sub-appalto dei nostri confini non è stato neanche gestito male da Ankara, che ha speso realmente gran parte dei fondi europei per i migranti, ma ha creato nel mondo turco una percezione di “ipocrisia” europea, che più o meno suonerà così: “Ma come, noi non saremmo rispettosi dei diritti umani e poi ci subappaltate il capitolo migratorio più scottante, per milioni di profughi?”.
Questo il sentire che possiamo immaginare diffuso e che deve aver avuto presa in anni ancora recenti. Ma ora il “grande fratello turco” è in ginocchio, e quindi sono subentrate altre priorità e quindi altre urgenze. Tra queste padre Monge vede “il nuovo disgelo con l’Armenia”, che torna in primo piano. Rileggendo i termini storici della chiusura della frontiera deve risalire fino al 1993, ma anche qui, ascoltando, emerge che fu l’Armenia a fermare il negoziato avviato nel 2008 e arenatosi definitivamente recentemente. Ora molti vedono l’offerta turca di riaprire il tavolo negoziale, accolta dall’Armenia, come un segnale di attenzione verso gli Stati Uniti. Ma è la grammatica economica di Ankara quella che a lui sembra prevalente.
“Per un Paese che conta di recuperare terreno in economia con le esportazioni, la vitale riapertura del confine orientale con l’Armenia è un tassello decisivo”, e per questo si è indotti a pensare che conti molto di più delle possibili attenzioni per questo o per quell’attore internazionale. Padre Monge sottolinea i perduranti elementi di incomprensione con Washington sulla questione-terrorismo. Il discorso è tanto intricato quanto delicato, riguarda il nord della Siria, dove Ankara vede gli alleati di Washington come “bracci operativi” del PKK, da entrambi ritenuti un gruppo terrorista. Eppure questi gruppi, in particolare le odierne SDF, sono sostenuti da Washington, dai tempi dell’Isis, e questo ostacola la reciproca comprensione. Ascoltando la rappresentazione puntuale dei due punti di vista, evidentemente distanti anche per via del disappunto espresso dalla Turchia dopo il recente rapporto del dipartimento di Stato sul tema, viene naturale pensare che ad Ankara prema l’apertura del confine per motivi commerciali e sapere che Mosca ha mediato il cessato il fuoco tra Armenia e Azerbaijan sarà il punto di ricaduta di “alleanza internazionale” che sembra emergere, più di quello con Washington.
Ma i tempi dell’importantissimo disgelo con Yerevan non saranno rapidissimi, sebbene padre Monge dica che è di queste ore la reciproca comunicazione dei team negoziali e la stessa comunicazione della riapertura dei voli turchi verso la capitale armena. Ma è la sola prospettiva nuova: basterà a rimettere in piedi la Turchia che dovrebbe votare nel 2023? Il racconto di Istanbul, città vetrina ma anche cassaforte, fa emergere in chi ascolta l’idea di un fallimento politico che accompagna quello economico. Erdogan abbassa i tassi di interesse mentre la lira precipita, confidando nell’export con una ricetta che va contro ogni regola economica ed a fine mese, con un deficit di cassa considerevole, dovrebbe pagare più di dieci miliardi di dollari di debiti e molti di più nel semestre seguente. Ce la farà?
Ecco allora che il racconto di come appaia poco curata Santa Sofia (in foto), dove non si vedono cantieri operativi, induce a domandarsi: avrà fatto bene a Santa Sofia, a Istanbul e alla Turchia la trasformazione in moschea che ha fatto perdere 8 milioni di biglietti annui al prezzo di 25 euro l’uno? Era quanto pagavano i visitatori quando era un museo. Oggi per entrare in moschea non paga nessuno, ovviamente. Così Santa Sofia diviene il simbolo di un fallimento politico, di una prova di forza che ascoltando il racconto di come si viva oggi a Istanbul diviene un test che andava capito soprattutto come prova di debolezza.
Tutto questo nel proseguire del racconto si connette nella mente di chi ascolta con altre prove di forza-debolezza. Lo si evince dalla ricostruzione che fa dell’attenzione che in Francia viene data in queste ore alla questione armena. Ci sono infatti candidati presidenziali che compiono in Armenia il loro primo viaggio all’estero, anche con ricevimenti ufficiali. La questione armena è ovviamente importante, ma non sembrano gli armeni al centro delle preoccupazioni elettorali. Piuttosto una visione forte di una questione religiosa che in realtà è “debole”, perché si appella alle radici comuni non per aiutare ma per aiutarsi indicando i problemi degli altri. In fin dei conti non sarà un discorso analogo al trionfalismo della photo opportunity di Santa Sofia?
Oggi il racconto da Istanbul la descrive come poco fruibile anche per il visitatore, la crisi economica riduce tutti i servizi; e poi, non era stata appena inaugurata a poca distanza la più grande moschea del mondo, almeno secondo le stime ufficiali? Così la gloria trionfalista fa sentire inni di debolezze che chiamano a raccolta non per risolvere, ma pochi racconti sanno aprire orizzonti come quelli di chi non giudica, ma collega i vari elementi. E il quadro che emerge è di estremo allarme: potrà la Turchia davvero procedere così fino alle elezioni del 2023? È un’illusione che Erdogan abbia in mente una exit strategy? O sono le costanti della storia passata quelle che possiamo vedere come nuvole che si addensano su un Paese così importante, o per meglio dire cruciale?