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In Cina arrivano i re Magi dal Golfo

La Cina ospita i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo per una visita comune e storica. Pechino nella regione ha piantato interessi (per primo quelli energetici) e cerca di costruirsi il ruolo di modello alternativo a quello americano

Su invito del Consigliere di Stato e ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, principe Faisal bin Farhan Al Saud, Kuwait, Oman, Bahrein e il segretario generale del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), Nayef bin Falah Al-Hajraf, visiteranno la Cina da lunedì 10 al 14 gennaio.

Si tratta di un tour dal valore strategico: quei Paesi hanno con la Cina una relazione in approfondimento, necessariamente da gestire per non perdere il rapporto storico con gli Stati Uniti. Emblematica è la vicenda dei missili balistici che Riad sta costruendo grazie all’aiuto di Pechino cercando di farlo all’oscuro di Washington — che per anni ha evitato di includere armi strategiche negli accordi militari con i sauditi, fornitura su cui invece i cinesi intendono dare una mano al regno, aiutandolo a raggiungere la produzione con le proprie capacità.

Il paradigma sta nel modello che il Partito/Stato intende trasmettere: la Cina, all’opposto degli Usa o dell’Ue, non filtra le sue azioni secondo questioni etiche e morali (il rispetto dei diritti per esempio), e dimostra di ascoltare le necessità degli altri Paesi a prescindere. Così facendo cerca di costruire legami profondi, ottiene credito laddove Stati Uniti e Unione Europea avrebbero difficoltà a fare tanto più adesso che la tutela delle democrazie è diventata per l’Occidente punto di compattazioni e vettore di azioni internazionali.

L’obiettivo cinese è dimostrare che esiste un’alternativa al modello occidentale e quell’alternativa risiede a Pechino. La Cina non chiede all’Arabia Saudita o agli Stati del Gcc di diventare più aperti e liberali prima di approfondire le relazioni reciproche, anche perché non potrebbe farlo visto lo scarsissimo livello di aperture e libertà interne. Parla da autocrazia, consapevole dei problemi di tenuta sociale che hanno le altre autocrazie (problemi legati anche alla non concessione di libertà, la quale e però allo stesso tempo un elemento che serve alla conservazione del potere).

Quella lingua autocratica è compresa nel Golfo, dove la Cina offre la possibilità di una copertura diplomatica internazionale all’interno dei meccanismi multilaterali (dalle Nazioni Unite in giù) abbinata a capacità tecnologiche, finanziarie, commerciali. Ossia offre ciò che hanno sempre offerto gli Stati Uniti, ma senza il livello di evoluzione della collettività interna, che da tempo ha iniziato a criticare le relazioni con Paesi autoritari come quelli del Golfo elevando la questione sul dibattito dell’opinione pubblica a un punto che per i legislatori non è stato più possibile ignorare.

E se il tema diventa la polarizzazione – o Cina o Usa – Pechino può giocare le sue carte, come dimostra la vicenda del ritiro emiratino dal programma F-35. I cinesi non chiedono ai partner di non lavorare con gli americani, cosa che invece questi ultimi fanno (almeno per questioni dal valore strategico come la fornitura di armi e le telecomunicazioni). E nel Golfo (come altrove, per esempio nel Sud-est asiatico) cresce il pensiero di chi cerca di evitare lo schieramento netto per proteggere i propri interessi.

Secondo il Global Times, organo di diffusione narrativa del governo Partito/Stato, dalla prima visita di gruppo ministeriale a Pechino potrebbero uscire “passaggi cruciali” verso un accordo tra Cina e Gcc che dovrebbe trattare fondamentalmente di libero scambio, ma allargarsi ad altri campi (collaborazione politica?). L’accordo è in discussione dal 2004 e mai implementato anche perché, soprattutto negli ultimi anni, Washington ha cercato di annacquare il dialogo.

Dalla sponda del Golfo l’interesse guarda anche all’Iran: la Cina ha costruito una relazione formalmente profonda con Teheran (con cui c’è stato un molto-pubblicizzato accordo venticinquennale), mentre da Riad e dalle altre monarchie sunnite nella regione la Repubblica islamica sciita è vista come un nemico esistenziale. Se gli Stati Uniti cercano di negoziare la ricomposizione dell’accordo sul nucleare Jcpoa, la Cina è comunque uno dei dealer in quell’accordo (in quanto membro del sistema diplomatico che lo ha negoziato). Pechino non è mai stata particolarmente attiva sul dossier, ma è chiaro che dal Golfo sia vista come un interlocutore.

Il Partito/Stato ha portato avanti una politica estera ambiziosa verso i sei Stati membri del Consiglio negli ultimi due decenni: si è avvicinata a questi Paesi nell’ambito della politica economica e di sicurezza, ma allo stesso tempo ha rifiutato di essere coinvolta nelle rivalità regionali o nei dibattiti sulle questioni strategiche in Medio Oriente.

È questo un punto in meno rispetto agli Stati Uniti, che invece – anche se in forma più disimpegnata per concentrarsi maggiormente altrove, per esempio sull’Indo Pacifico – continuano a essere motore di certe dinamiche regionali in modo attivo. Anche gli Stati del Golfo ora credono che l’Asia – non solo la Cina, ma anche l’India e il Giappone – sarà la regione più importante per la loro futura prosperità economica, anche se continuano a contare per il prossimo futuro sugli Stati Uniti e altre potenze occidentali su questioni relative all’architettura di sicurezza e alla difesa.

Sul tavolo anche il tema energetico. Nel 2020 un terzo dell’energia importata dalla Cina usciva da Paesi membri del Gcc: per la crescita economica di Pechino è impossibile non dialogare con quel mondo. Con la crisi kazaka (che dimostra come il Partito/Stato soffra ancora nel controllare e gestire i suo interessi all’estero, soprattutto quando escono dal binario lineare), Pechino cerca rassicurazioni dal Golfo. Astana fornisce l’uranio per le centrali nucleari, che sono per i cinesi un fulcro nella transizione energetica, ma dal Medio Oriente arriva il petrolio e il gas liquefatto che nel prossimo futuro continuano comunque a essere centrali nell’approvvigionamento energetico.

La crescente domanda interna di energia della Cina è stata alla base dell’interesse iniziale nella regione, ma da allora Pechino è diventato un partner importante per gli Stati del Golfo in diverse altre aree, compresi gli investimenti in infrastrutture, il commercio di beni e servizi, la tecnologia digitale e si sta espandendo sui mercati militari – per esempio, mentre gli Usa rifiutavano di fornire droni armati a Emirati e Arabia Saudita, la Cina ha venduto i Wing Loong e altri velivoli dimostrandosi aperta alle richieste di quei Paesi, come detto.



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