Dal documento del think tank britannico Chatham House emerge la necessità di cooperazione per i leader transatlantici, se vogliono offrire un modello diverso da quello cinese, per ora più persuasivo. Dal mercato digitale alla creazione di standard unici per tutti: la strada è lunga e per riuscirci occorre dialogare con quanti più attori possibile
“Mentre Stati Uniti, Ue e Regno Unito divergono nei loro approcci ad alcune aree della governance tecnologica, la cooperazione e le alleanze possono comunque essere rafforzate e gli accordi possono essere raggiunti”. Scrive così la Chatham House, o Royal Institute of International Affairs, il think tank britannico che, nel suo ultimo documento “Digital trade and digital techical standards, Opportunities for strengthening US, Eu and Uk cooperation on digital technology governance”, ha provato a diffondere ottimismo riguardo un’alleanza strategica.
Il centro studi ha riunito esperti ed esponenti del settore privato ed industriale, delle istituzioni pubbliche ed internazionali, del mondo accademico e della società civile, per individuare “le opportunità strategiche volte a rafforzare la cooperazione transatlantica sulla governance della tecnologica digitale”. La potenzialità tanto della Gran Bretagna – che sebbene abbia un mercato notevolmente più piccolo di Usa e Ue ha ancora tanto da offrire, avendo già presieduto l’agenda digitale del G7 nel 2021 – quanto degli altri due attori, scrivono gli autori, spingono a trovare nuovi modi per superare le attuali difficoltà nel settore tecnologico.
Chiaro il riferimento ai vari progetti europei che, nonostante la delusione di Washington, restano cari a Bruxelles. Su tutti il Digital Markets Act e la sua concezione di gatekeeper, ovvero quelle aziende così forti sul mercato da trarne un vantaggio a discapito della concorrenza. E queste, per via dei parametri imposti, sono in massima parte americane piuttosto che europee. Londra, pure, non dorme e pensa a una legge per aumentare la sicurezza sui social, mentre stringe accordi con Amazon Web Services per la sicurezza cyber.
A questo si aggiunge l’atteggiamento differente su come regolare il potere delle Big tech: più lassista quello statunitense, più stringente – a tratti vendicativo – quello europeo e britannico. Tuttavia, le divergenze sul come intervenire non dovrebbero far dimenticare il perché intervenire. E qui ha puntato i riflettori Chatham House: alla base, c’è la volontà di cooperare e coordinarsi in un settore fondamentale.
Tutte e tre, infatti, “condividono una visione per la governance della tecnologia digitale fondata su un Internet libero, aperto e globale”, si legge nel documento. “Danno priorità alla promozione dell’uso responsabile, democratico e inclusivo delle tecnologie emergenti, insieme allo sviluppo di politiche per rafforzare la sicurezza, la prosperità e la protezione dei diritti umani”. Una triplice alleanza digitale, dunque, capace di influenzare e coinvolgere altri Stati come, d’altronde, stanno facendo Cina e Russia.
Pechino, soprattutto, sta allargando la sua sfera di influenza e allargando il suo modello di governance nei Paesi emergenti, anche attraverso la Belt and Road Initiative (Bri), il suo progetto di soft power più importante. Inoltre, per Usa, Ue e Regno Unito unire le forze vorrebbe dire anche slegarsi dalla dipendenza dei semiconduttori asiatici e avere più chance di vittoria nella partita del 6G – non senza aver fatto il mea culpa per gli errori commessi sul 5G.
Di motivi, insomma, ce ne sono tanti. Il report si concentra su due in particolare, il commercio digitale e gli standard tecnici. Sul primo, “è urgente che i governi cooperino per sfruttare la trasformazione e sostenere la ripresa economica della pandemia Covid-19”. L’emergenza sanitaria ha aumentato gli scambi online in modo vertiginoso ma per far sì che si sfrutti al meglio il mercato transatlantico occorre necessariamente che vengano messi da parte i rancori. Come fatto in occasione della pace tra Ue e Usa per sulle sovvenzioni aeree a Boeing e Airbus, dopo diciassette anni di accuse reciproche. O quando sono stati avviati i colloqui per arrivare a un accordo globale sull’acciaio e l’alluminio sostenibili e porre fine alle controversie.
Cooperare, poi, avrebbe un impatto fondamentale sulle prossime sfide geopolitiche sulla gestione dei dati. Una preoccupazione arriva dalla visione cinese, che riveste un fascino sempre più diffuso, sul commercio digitale. Da ormai un po’ di tempo, Pechino si è buttata sul palcoscenico internazionale a ha sottoscritto diversi accordi regionali, come il RCEP – il primo per il libero scambio in Asia –, o ha volontà di sottoscriverli. È il caso dell’accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico (CPTTP), alla cui porta ha bussato anche il Regno Unito. “Il mercato interno cinese dei servizi digitali è sostenuto da rigide politiche di localizzazione dei dati e restrizioni sui flussi di dati transfrontalieri”, scrivono dal centro studi con sede a Londra.
Per farsi trovare pronti, pertanto, l’asse Ue-Uk-Usa deve prima allinearsi su principi condivisi, dando seguito a quanto raggiunto al G7 sotto la presidenza britannica, e mostrarsi come un fronte unico e aumentare la leadership. Una convergenza è auspicata per sbloccare le situazioni più spinose al momento, come i flussi di dati transfrontalieri e la protezione di quelli personali. Riuscirci da soli, però, è impossibile. Servono accordi bilaterali e regionali, promossi anche con attori che possono sembrare ideologicamente lontani ma che in realtà potrebbero condividere più di quanto si pensi e risultare alleati strategici – l’India, ad esempio, sta dando particolare attenzione alle questioni tech. La promozione di accordi tra Paesi digitalmente progressisti ed aperti, inoltre, agevolerebbe la creazione di norme e regole universali su cui tutti devono basarsi. Anche solo un passo in questo senso rappresenterebbe già una grande conquista, vista la confusione che regna.
Alla centralizzazione del modello digitale cinese, dunque, si dovrà essere in grado di opporne un altro, più libero e diffuso. Al momento, però, i tentacoli cinesi sembrano allungarsi con maggiore elasticità e non solo nei Paesi di stampo autoritari. Le preoccupazioni che accomunano Usa, Ue e Uk riguardo la capacità di promozione di Pechino dovrebbero spingerle a controbilanciare l’offerta con un altro modello, diversificato e che coinvolga più attori. “Ciò potrebbe includere l’ampliamento della partecipazione di esperti all’interno delle delegazioni nazionali ai processi di sviluppo di norme multilaterali, arricchendo così il lavoro dei gruppi di lavoro transatlantici esistenti sulle norme tecniche con il contributo della società civile e del mondo accademico”.
Se le sfide si chiamano Intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche e infrastrutture di telecomunicazione, avere un programma condiviso con “Paesi che la pensano nello stesso modo”, ma anche con quelli appartenenti alla “zona grigia”, “sarà fondamentale per lo sviluppo di coalizioni politiche internazionali per standard digitali sicuri, efficaci ed interoperabili”. L’urgenza, secondo gli esperti del think tank, è quella di interloquire con tutti gli stakeholder, a partire da quelli che operano nel settore privato fino ad arrivare alla società civile. Anche così, infatti, la Cina è riuscita a colmare il vuoto infrastrutturale e digitale nelle economie del Sud del mondo.
Il Regno Unito si sta iniziando a muovere in questo senso, come testimoniano i suoi tentativi di allargare l’alleanza anche ai partner indiani e australiani. La sessione ospitata da TechUk e dal Uk-India business a maggio scorso ha assunto proprio questo significato, con il tentativo di focalizzare i punti di unione tra i due Stati in ambito tecnologico e superare gli ostacoli che non permettono di raggiungere accordi per un accordo per il commercio digitale.
Piccoli passi, che mostrano ancora quanta strada c’è da percorrere per arrivare a una collaborazione generale. Sarà lunga e tortuosa, non c’è dubbio, ma solo così Stati Uniti, Unione europea e Regno unito, “lavorando per un approccio più inclusivo e congiunto, saranno in una posizione migliore per plasmare la governance tecnologica globale in linea con i loro valori condivisi”.