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Il Vaticano al capezzale del Libano. Il viaggio di Gallagher

Se monsignor Gallagher, ministro degli Esteri del papa, tornerà a collocare la questione cristiana alla questione della convivenza, della comune cittadinanza, e quindi all’abbandono della strategia aounista di alleanza con i khomeinisti, arriverà non solo al momento giusto, ma anche sul tema cruciale per salvare l’esistenza materiale del Libano come Paese sovrano. La riflessione di Riccardo Cristiano

Programmata da tempo, la visita del segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, monsignor Paul Gallagher, arriva certamente in un momento disastroso per il Libano, e non solo per le comunità cristiane. È noto che papa Francesco vuole visitare quello che un tempo veniva chiamato il Paese dei Cedri, perché conserva una comunità cristiana numericamente numerosa, perché vive una crisi politica, economica e di prospettiva come non si ricordava dai tempi della guerra civile conclusasi tra le macerie del 1990, e perché solo il Libano ha posseduto le chiavi per la costruzione, almeno potenziale, di una prospettiva di cittadinanza nel mondo arabo. Questa prospettiva era data dall’esistenza di un qualcosa di assimilabile ai ceti medi, a un sistema di istruzione efficiente e di qualità, a una stampa di qualità e libera e dal desiderio di apertura al mondo espresso apertamente da parte delle giovani generazioni. Tutto questo faceva del Libano il “messaggio” di cui parlò Giovanni Paolo II, il papa che convocando un sinodo per il Libano e aprendolo alla partecipazione di esponenti di tutte le comunità di fede presenti nel Paese ha aperto le porte alle speranze di una democrazia inclusiva arabo-mediterranea, in Libano.

Tutto questo sta affogando però in una crisi che non ha precedenti. L’economia è al collasso, la lira libanese è precipitata dalla fine del 2019 da un tasso di cambio con il dollaro di 1500 lire libanesi a 33mila. Un salario basso è precipitato così da un accettabile valore di 4/500 dollari mensili a poco più di 20 dollari mensili. Beirut appare una città di nuovo morente, il flusso migratorio è inarrestabile, la politica è collettivamente sul banco degli imputati, le elezioni previste per maggio prossimo non è sicuro che potranno svolgersi, il governo è costantemente in crisi, paralizzato dai veti incrociati, l’inchiesta sull’esplosione del porto di Beirut osteggiata dai ministri del duo sciita che accusano il magistrato inquirente di politicizzare le indagini perché vuole interrogare i ministri competenti di fatto ingabbiata. La presidenza del cristiano Michel Aoun presentata anni fa come la presidenza del nuovo uomo forte sta diventando la presidenza dell’uomo debole, ancorata alla speranza di poterla consegnare in eredità al genero, Gebran Bassil. Il Presidente non ha potuto né saputo costringere Hezbollah ad accettare che il Libano indagasse sulla più grande esplosione non atomica dell’epoca recente, che ha ridotto la sua capitale a una città mutilata.

È in questo quadro sempre più legato ai calcoli politico-strategici di Tehran, vero referente del partito-chiave, Hezbollah, che il fatto politico dirompente è esploso pochi giorni fa con il ritiro dalla politica di Saad Hariri, vero referente della comunità sunnita. Il suo ritiro però non riguarda solo loro, ma tutta l’area moderata del Paese. Scaricato dai sauditi, incapace di rappresentare un’alternativa allo strapotere dell’Iran, Saad Hariri ha guidato per anni governi a dir poco tanto scadenti quanto di unità nazionale, delegittimando il ceto politico. Ma la sua uscita di scena è stata malvista soprattutto da Hezbollah, che vedeva in lui una copertura per seguitare la sua conquista del palazzo libanese in una condivisione dello spazio politico in modo rassicurante per i moderati. Ora il tappo è saltato. Hariri ha lasciato la scena e questo pone a tutto il mondo politico che non si riconosce nella linea filo-iraniana una domanda enorme: esiste ancora il Libano-messaggio di Giovanni Paolo II? Esiste ancora la possibilità di costruire una prospettiva di cittadinanza basata non su egemonie settarie, claniche, tribali?

Assillato dalla domanda su come arrivare non a fine mese ma alla fine della giornata, il libanese medio si sente estromesso dal suo Paese, dal suo spazio culturale che non è assimilabile a quello del sistema teocratico khomeinista. Ma per assurdo la crisi di Beirut ha lasciato al potere tutte le oligarchie tribali e settarie che gestirono o che vennero prodotte dalla guerra civile, cancellando solo la famiglia Hariri, che con il suo capostipite ha messo con i piedi per terra il modello sociale e politico prospettato da Giovanni Paolo II con il suo “Libano-messaggio”. Una società inclusiva, una società non confessionale, una società aperta, aveva preso forma solo negli anni di Rafiq Hariri, per il cui assassinio a Beirut il Tribunale Internazionale ha condannato un operativo di Hezbollah.

Per questo è importante che monsignor Gallagher apra il suo viaggio libanese intervenendo proprio a un convegno sull’idea di Libano-messaggio, che non può essere contro gli sciiti, ma non può piegarsi all’Iran, non può essere contro i sunniti, ma non può soggiacere ai desiderosi di fedeltà di Riad. Per questo il messaggio-Libano è ciò che il ceto politico sta cercando di cancellare, cancellando i ceti medi, cancellando l’istruzione, cancellando gli spazi di confronto interconfessionale. Se il viaggio di monsignor Gallagher tornerà a collocare la questione cristiana alla questione della convivenza, della comune cittadinanza, e quindi all’abbandono della strategia aounista di alleanza con i khomeinisti, ma di ricostruzione di una democrazia inclusiva e mediterranea, arriverà non solo al momento giusto, ma anche sul tema cruciale per salvare l’esistenza materiale del Libano come Paese sovrano.

 

 

 



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