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Battaglie navali. I russi nel Mediterraneo (e noi)

La presenza russa nel Mediterraneo, dalle coste africane alla Siria, non è certo una novità. Ma le navi di Putin che solcano il mare non lontano dai nostri confini ci riguardano. Ecco quanti e quali risorse ha il nostro Paese. Il commento del generale Mario Arpino

L’Italia va alla guerra? Speriamo di no. Ma è un dato di fatto che dalla primavera dell’anno scorso Vladimir Putin, che immaginiamo seduto in atteggiamento pensoso davanti ad una grande carta geografica, una ne fa e cento ne pensa.

Anzi, tutto il contrario: una ne pensa e cento ne fa. Scopo apparente è l’occupazione dell’Ucraina, con un accerchiamento militare. Scopo immediato, uscire in modo onorevole dalla trappola delle crisi che egli stesso ha contribuito ad aggravare. Scopo reale di tutta la messa in scena: recuperare credibilità e fiducia all’interno, ottenere maggior rispetto all’esterno ed uscire quanto prima da un disastro economico che si preannuncia imminente. Forse c’erano altri modi per liberarsi da questi incubi, ma ognuno usa i mezzi che ha ed i metodi che la sua cultura gli suggerisce.

In realtà nessuno vuole fare davvero la guerra, e tanto meno questo novello Zar, che già sembra annaspare nell’inquietudine dell’isolamento. Figuriamoci l’Italia e l’Unione Europea, che si sono costruite un assetto militare disegnato sulle cosiddette “missioni di pace”, mostrandosi quasi sorprese quando nel Golfo, in Bosnia, in Serbia, in Kosovo, in Libia ed episodicamente anche in Afghanistan, con il cappello Nato si sono trovate, sistematicamente, a sganciare bombe vere usando i cattivi cacciabombardieri piuttosto che i buoni intercettori della Difesa Aerea. Oppure i ricognitori con o senza pilota per individuare obiettivi militari che poi altri avrebbero dovuto bombardare.

Da ultimo, non avendo sinora ottenuto risultati se non un poco desiderato e discutibile avvicinamento della Cina, ha deciso di buttare sul piatto della bilancia anche le sue flotte vicine e lontane, dirigendole verso gli ingressi del Mediterraneo. Non solo unità di superfice con tanto di missili da crociera e rifornitrici di squadra, ma anche sommergibili e, forse, sottomarini.

Il quadro si amplia, perché cosi si è immediatamente attivata, come da compiti di istituto, anche la nostra Marina Militare, con la relativa catena di comando, controllo e supporto che fa capo al Comando della Squadra Navale di Santa Rosa (Cincnav). Le operazioni di presenza e sorveglianza nelle aree cruciali sono subito iniziate, sotto forma di esercitazioni congiunte con le forze aeronavali francesi e statunitensi.

Secondo una nota del Ministero della Difesa, la formazione di navi russe “…sta transitando in acque internazionali e non sta violando la sovranità degli Stati rivieraschi”. Nella medesima comunicazione si legge che ”..la Nato sta seguendo il gruppo navale sin dalla partenza e continuerà a monitorarne il transito. Nello stesso tratto di mare sono infatti schierate le unità navali dell’Alleanza che hanno preso parte all’esercitazione Neptune 2022, tra le quali anche la portaerei nucleare Truman”. E, aggiungiamo noi, anche la nostra Cavour con i suoi Sea Harrier AV-8 e la francese Charles de Gaulle con i suoi Rafale.

La presenza russa nel Mediterraneo non è una novità, se solo pensiamo al porto di Tartus, in Siria, che ne è una base permanente. Ai tempi dell’Urss, quando nel 1967 il “rapporto Harmel” dell’Alleanza enumerava questo mare tra le “exsposed areas”, il transito di naviglio sovietico dagli Stretti era già triplicato. Nel 1965, la flotta del Mar Nero aveva schierato permanentemente oltre i Dardanelli la Quinta Eskadra (Chiamata in acronimo Nato “Sovmedron”) per bilanciare la presenza della 6^ Flotta statunitense.

Ma, prima ancora, nel 1962, ricordo che i miei compagni di corso che allora volavano con i ricognitori fotografici RF-84F si rischieravano da Villafranca a Sigonella per controllare in mezzo al Mediterraneo se i mercantili sovietici trasportassero, allineati sopracoperta, i famosi missili da installare a Cuba per minacciare gli Usa. Era una contromisura per i missili americani Jupiter installati in alcuni siti della Puglia (Gioia del Colle e dintorni) ed in Turchia, orientati verso l’Unione Sovietica.

Ed ecco qui, immediata, un’analogia con la situazione attuale che ci consentirà di concludere con un auspicio positivo. Nel 1962, la “crisi dei missili a Cuba” (ricordata anche come “crisi dei Caraibi” (dal 16 al 28 0tt0bre) stava per far scoppiare la guerra tra Russia e Stati Uniti, che non intendevano sottostare alla minaccia di missili sovietici a 90 km dalle proprie coste. Si arrivò ad un embargo totale, al blocco navale e ad un ultimatum.

Gli attori principali erano John Fitzgerald Kennedy e Nikita Krushev. Ma anche allora, come oggi, nessuno voleva davvero la guerra. In segreto, a con fatica, si arrivò ad un accordo: pubblicamente, i sovietici avrebbero smantellato le loro armi offensive a Cuba e le avrebbero riportate in patria sotto la supervisione dell’Onu. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero rilasciato una dichiarazione pubblica di non tentare mai più di invadere Cuba, come avevano tentato ai tempi della Baia dei Porci. Segretamente, gli Usa avrebbero anche acconsentito di smantellare tutti gli Jupiter schierati in Turchia, Italia e Regno Unito. Il blocco venne formalmente concluso il 21 novembre 1962, realizzando nel contempo una linea calda di comunicazione permanente tra Usa e Urss.

Da allora, sono trascorsi quasi sessant’anni e la terza guerra mondiale non è ancora scoppiata. C’è solo da sperare che qualcuno abbia recuperato in archivio la vecchia formula del 1962 e sia oggi disponibile a ripeterne la procedura.


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