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Quando Dino Buzzati “assunse” Mario Verdone

Nell’anniversario della morte di Dino Buzzati, Eusebio Ciccotti, comparatista e storico del cinema, ricorda un momento della sua vita di laureando quando “incrociò” Dino Buzzati e Mario Verdone

Le lezioni di cinema del professor Mario Verdone si tenevano in una auletta allestita al settimo piano di via Magenta 2, tra Palazzo dei Marescialli e la stazione Termini.

Sovente il prof., se noi frequentanti eravamo una decina, faceva telefonare dal segretario Claudio Mosticone, “a qualcuno”. Poi ci conduceva per le vie del quartiere: via Marghera, via Goito, via Milazzo, via Varese. Lì vi erano ditte di “noleggio pellicole” in 35 e 16 mm. Ci arrampicavano al quarto o quinto piano di quei palazzoni neogiolittiani, sino a raggiungere degli appartamenti adibiti a deposito film.

Mario Verdone, via Arenula (2007)

Che fascino quando ci accoglieva il profumo di acetone della pellicola e, facendo la gimkana tra le colonne delle pizze da 35mm, ci accomodavano alla meno peggio, su sedie, sgabelli e banchetti. Alle pareti ci davano il benvenuto manifesti e locandine colorate. Il dottor Zivago con Omar Sharif; Morte a Venezia, con Dirk Bogarde; Love Story con Ali MacGrave;  I quattrocento colpi, con Jean Pierre Léaud; L’asso di picche, con la bella Pavla Martinková.

Si spegneva la luce e un 16mm entrava in funzione, con il suo miagolante trascinamento, appena coperto dall’audio delle casse mono, poste ai lati del trespolo che ospitava il proiettore

Ecco scorrere Lo studente di Praga (1913) di Stellan Rye, L’ultima risata (1924) di F.W. Muranu o Il milione (1931) di René Clair. Poi, finita la proiezione e il “commento” guidato dal prof., si ridiscendevano le immense trombe di scale, simili a quelle di Un maledetto imbroglio (1959, P. Germi). Il profumo di broccoli e maccheroni, uscendo dalle fessure di quelle antiche porte di legno massiccio, vincendo sull’acetone, ci riportava alla prosaica realtà.

Noi vivevamo, protetti, in un’isola di pellicole, l’autentica rivoluzione del primo Novecento: quella dadà, espressionista, surrealista, realista, neorealista, delle nouvelle vague. Con film quali Entr’acte (R. Clair,1924), Metropolis (F. Lang, 1927), L’uomo con la macchina da presa (D. Vertov, 1929) Zéro de conduite (J. Vigo, 1933), Ladri di biciclette (De Sica, 1948), L’anno scorso a Marienbad (A. Resnais, 1961). Altri studenti, bloccando le attività didattiche, occupavano l’università e si facevano chiamare «indiani metropolitani».

Mario Verdone era un autentico comparatista, prima che tale disciplina, a partire dagli anni Novanta, divenisse di moda. Dal film appena proiettato, ci conduceva per percorsi a noi sconosciuti. Ecco i “collegamenti”, non solo con l’universo filmico, ma anche con la letteratura, la pittura, la scenografia, l’architettura, la musica, il teatro, il mondo del circo. Quando si sparse la voce di quel prof. speciale arrivammo a circa cento frequentanti: chi giungeva in ritardo si sedeva sul pavimento. Dopo il film si andava, a gruppetti di quattro o cinque, a prendere un caffè in via Magenta, via Dei Mille, Piazza dei Cinquecento. O in via Marsala, da Trombetta.

Arrivò, per me, il tempo della tesi di laurea. Proposi al prof. “Il fantastico nel cinema italiano”. Mi interessava applicare l’ermeneutica di Tzevan Todorov e di Gérard Genette al testo filmico. Egli accolse l’idea con espressione seria, senza commentare eccessivamente, “Bene”, e la firmò. “Vorrei – gli dissi – realizzare un corto tratto da un racconto di Dino Buzzati, da allegare alla tesi”. “Se il cortometraggio mi piace lo porterai in discussione, altrimenti solo il volume cartaceo, come tutti gli altri”, tagliò corto. Il prof. Verdone ti ascoltava concentrato, poi aspettava il suo turno linguistico, ti rispondeva con poche parole. Se la proposta dello studente era valida l’accettava e firmava immediatamente la tesi. Era concreto, essenziale.

Il film lo realizzai, operatore e montatore, François Proïa (antico compagno di università insieme a Arnaldo Colasanti, Claudio Damiani  e Paolo Del Colle). La fortuna fece sì che a Mario Nascimbene, il musicista di tanti capolavori del cinema mondiale, gli capitò di vedere me e François intenti a montare il cortometraggio in dipartimento, manualmente, scotch e macchinetta, mentre era lì per un seminario sulla “musica da film”. Volle visionare il girato e ne rimase attratto, tanto da offrirmi di comporre il commento musicale gratis.

Una settimana prima della discussione Verdone volle vedere il corto Lettera d’amore, dall’omonimo racconto di Dino Buzzati. Lo proiettò a lezione e alla fine aprì l’applauso seguito da tutti gli studenti. Ero emozionato. In seduta di laurea, dopo la discussione sul volume di tesi, venne proiettato il film ai docenti. Era una novità alla Sapienza. Altro applauso.

Il giorno dopo, promosso assistente volontario di cattedra, Verdone mi disse: “Ho conosciuto Dino Buzzati, un grande scrittore. Mi adottò al Corriere della Sera. Pubblicava i miei articoli che gli mandavo dalle varie parti del mondo, quando visitavo le mostre”. Rimasi a bocca aperta. “Ma, scusi professore, come mai non me l’ha detto durante la scrittura della tesi e la realizzazione del corto?”. “Non volevo influenzarti dicendoti che è uno dei miei autori preferiti”. Facendomi coraggio: “Che tipo era Dino Buzzati?”. Rispose: “Serio, di poche parole, sapeva ascoltare”. Credo che Mario Verdone somigliasse a Dino Buzzati.

Nella prima metà degli anni Ottanta le lezioni di Mario Verdone divennero davvero affollate. Senza rendersene conto, era considerato una star. Per il suo modo chiaro di far lezione, per metterci al corrente dei film visti nei cineclub, per il sottile umorismo. Per la cultura che ci faceva piovere addosso, delicatamente. Senza farci sentire ignoranti. Alla fine delle due ore non tutti se ne andavano. Rimaneva un gruppetto di studenti, alcuni di qualche anno più giovane di me, a prolungare l’analisi del capolavoro appena goduto. Poi si passava a parlare dei film in programmazione, o quelli da recuperare nei cineclub. E, senza accorgersene, eravamo già seduti in qualche “baretto” intorno a via Magenta, alle spalle della Basilica costruita da Don Bosco.

Quell’auletta del settimo piano si rivelò l’officina di futuri studiosi, operatori culturali e registi: Giancarlo Concetti (poi direttore biblioteca del C.S.C. di via Tuscolana), Daniele Luchetti (sceneggiatore e regista), Jaki Rener (operatore culturale a Gorizia), Roberto Di Vito (regista), Fabio Segatori (regista), François Proïa (accademico), e sicuramente ne dimentico qualcuno.

Ora, ripensando a quelle lezioni di cinema di mezzo secolo fa, a quei film visti nei depositi dei distributori, alle locandine colorate sui muri, a quel gruppo di ventenni, follemente innamorato di cinema, su e giù per quei palazzi gaddiani, e, poi, a discutere di cinema, con una birra e un panino, al bar di piazza dei Cinquecento, con gli autobus verdi, fracassoni e puzzolenti di nafta dell’Atac, che ci circumnavigavano senza requie, mi si stringe il cuore. Quel mondo non c’è più. Ho l’impressione, talvolta, che tutto ciò non si accaduto. Mi pare di avere letto un racconto di Dino Buzzati.



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