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Gli inediti di Pinuccio Tatarella per una destra da reinventare

Il volume “La Destra verso il futuro. Itinerario di una svolta” (Historica-Giubilei Regnani) raccoglie gli scritti mai pubblicati prima a firma di Giuseppe Tatarella. Un libro che a ventitré anni dalla prematura scomparsa del miglior “fabbro politico” che la sua parte politica abbia avuto, ripercorre le intuizioni che seminò lungo il percorso che avrebbe dovuto portare a un bipolarismo maturo e non solo

La nascita di Alleanza nazionale, a Fiuggi, venne salutata da Pinuccio Tatarella, non senza commozione, con queste parole: “Una pietra a questo cantiere viene portata dal congresso di Alleanza nazionale: dalla nostra pietra, dalla pietra di tutti, in umiltà come persone, ma col senso della storia come progetto, potremo costruire a cavallo tra due secoli, un nuovo corso di Rinascimento, di modernizzazione, di futuro”.

Le leggiamo oggi queste parole con un senso di angoscia e di nostalgia, mentre sfogliamo, il suo libro di inediti raccolti dalla Fondazione che porta il suo nome: La Destra verso il futuro. Itinerario di una svolta (Historica-Giubilei Regnani), che vede la luce a ventitré anni alla prematura scomparsa del miglior “fabbro politico” che la sua parte politica abbia avuto  negli ultimi decenni. E saltano agli occhi le intuizioni che Tatarella seminò lungo il percorso che avrebbe dovuto portare ad un bipolarismo maturo, ad un’alternanza anticamera della pacificazione, ad un nuovo sistema politico imperniato sulla centralità della volontà popolare, nel presidenzialismo partecipativo e decidente.

Nei suoi inediti che leggiamo in questi giorni in cui il ricordo di quell’8 febbraio 1999 diventa più vivido e quasi vicino lo sentiamo, ci coglie la suggestione che Tatarella è come se ci avesse affidato il compito di varare un grande cantiere; compito che la destra e il centrodestra non sono stati all’ all’altezza eppure di provare a metterlo insieme. E con esso l’illusione di dare un nuovo senso alla storia italiana.

Il “cantiere” era, naturalmente, la Nuova Repubblica; il senso della storia era rappresentato dalla consapevolezza di superare i logori steccati della “guerra civile” per aprire una stagione di feconde contaminazioni nella quale la destra potesse recitare la sua parte a prescindere dai vecchi pregiudizi che l’avevano tenuta fuori dal confronto politico per decenni. Davanti a questa prospettiva, il partito che nasceva – non da una crisi lacerante, da una scissione o addirittura da una rottura del patto costitutivo che lo aveva portato a rappresentare una parte d’Italia tutt’altro che marginale, ma dall’esigenza di “gettarsi” heideggerianamente nella contesa che il destino si stava incaricando di predisporre per l’Italia – non poteva che avere i connotati del movimento politico “armonico”, flessibile, dialogico e non ideologico. Connotati che avrebbero dovuto farlo diventare interlocutore privilegiato di forze che inevitabilmente sarebbero state attratte nella sua orbita considerando che la decadenza del sistema imponeva più moderne ed originali diversificazioni sullo scacchiere politico, al punto di far coincidere tematicamente gli opposti su questioni di nodale importanza come la riforma dell’impianto istituzionale.

Tatarella era affascinato da questa prospettiva, ma si rendeva ben conto che essa era di difficile realizzazione se non si fossero verificate talune condizioni, che nel libro appena edito ritroviamo come un miracoloso recupero di un pensiero organico. Prima  tra tutte la capacità di calamitare energie, intelligenze, proposte, eresie attorno ad un progetto che fosse ad un tempo compatibile con la sensibilità politica corrente ed insieme seducente abbastanza per vincere diffidenze radicate e proporre la Destra quale catalizzatrice di una silenziosa e tranquilla “rivoluzione” nella quale le coscienze libere si potessero ritrovare giocando la loro partita, mettendosi in discussione, facendola finita, per esempio, con la stucchevole contesa tra “borgognoni ed armagnacchi”, per dirla con Paul Valéry, cioè a dire tra antifascisti ed anticomunisti.

Tatarella detestava il già visto e non voleva più vedere battaglie politiche combattute nel nome di inesistenti o insostenibili ragioni le quali nulla avevano a che fare con la modernità alla quale intendeva ispirare il rinnovamento. Fu così che “rispolverò” Di Vittorio e Sturzo per farli “colloquiare” con la Destra. Alla stessa maniera diede vita ad uno scambio, favorito dalla lettura tutt’altro che ortodossa, di alcuni testi di Miglio, tra presidenzialismo ed autonomismo. E continuò immaginando che ex comunisti ed ex fascisti potessero scardinare l’equilibrio sistemico creatosi attorno alla Democrazia cristiana ed al pentapartito, inserendo nell’ordinamento il metodo maggioritario per l’elezione del Parlamento. Prove di radicalismo politico portato avanti con il moderatismo che gli era proprio. Ma anche preludio di uno schema innovativo che inevitabilmente avrebbe favorito la comprensione tra tutti gli ex facendoli ritrovare in contenitori che non assomigliassero in nulla a quelli con i quali l’Italia era abituata a convivere politicamente.

Tatarella, in questo senso, è stato molto più di ciò che è apparso. Tanto è vero che quasi nessuno ha mai notato come, a poche settimane dalla fondazione di Alleanza nazionale, egli già considerasse superato il soggetto cui aveva con tutta l’anima cercato di dare vita e già s’interrogava sul ruolo della “nuova Destra” in uno schieramento più vasto, capace di superare quello stesso Polo delle libertà che pochi mesi prima aveva vinto, contro ogni pronostico, e grazie al sistema maggioritario, le elezioni politiche.

Non sapendo starsene con le mani in mano, e tantomeno incapace di cullarsi sugli allori, Tatarella s’inventò, a poche settimane dal congresso di Fiuggi, la formula di “oltre il Polo”. Che non era soltanto una formula, beninteso, ma un autentico progetto politico. Convinto com’era che il sessantacinque per cento degli italiani si riconosceva in un “moderatismo” che nessuno aveva mai offerto loro come prospettiva politica, immaginò che il collante per far con vivere quest’area non di sinistra doveva essere un progetto istituzionale, ma anche morale e civile. Insomma, partecipativo. La prospettiva della Repubblica presidenziale, alla quale, a dire la verità aveva sempre guardato con ammirazione, immaginando l’apparizione di un De Gaulle italiano, poteva essere lo strumento per chiamare a raccolta tutti coloro i quali cominciavano ad avvertire una certa stanchezza del sistema dei partiti diventato da tempo immemorabile “partitocratico”.

Non a caso anni prima, nell’editoriale di uno dei suoi tanti giornali, “Repubblica presidenziale”, per l’appunto, aveva scritto, a mo’ di preludio del clima che si stava per creare nel nostro Paese, “Oggi la cultura del cambiamento tramite il presidenzialismo è maggioritaria nella società civile, mentre tre partiti tradizionali (in ordine cronologico Msi, Psi e Pli) e un neo-movimento, le Leghe, si sono schierati per il presidenzialismo. Stabilire il primato cronologico della tesi presidenzialista non ha incidenza né nel dibattito in corso, né per le soluzioni per il futuro. Non è cioè produttivo di effetti politici. Occorre, invece, superate le rivendicazioni ideologiche di primato delle tesi e accantonati i motivi di divisione sull’attuazione dell’ipotizzata Repubblica presidenziale, procedere ad un’alleanza sul tema. Costruire cioè un contenitore arioso con le forze che, per motivi diversi, sono presidenzialiste (missina, socialista, liberale e leghista) e con tutti coloro che nei partiti o fuori dai partiti, in qualsiasi partito o movimento, di qualsiasi schieramento ideologico, vogliono il cambiamento, la modernizzazione, il nuovo, l’efficienza, il decisionismo, attraverso il solo strumento possibile: la democrazia diretta, la Repubblica presidenziale, la riforma della Costituzione”.

Era questo lo scopo della “traversata del deserto” di Tatarella. Ed Alleanza nazionale, anni dopo la preconizzazione della caduta delle barriere, avrebbe dovuto avere l’obiettivo di promuovere il contenitore che, invece, si realizzò grazie ad eventi dirompenti che fecero andare in pezzi il vecchio equilibrio, mentre nessuno era in grado di prevederne uno nuovo. Tuttavia, Tatarella lo aveva immaginato il contenitore, fin dal 1990, ben prima che si manifestasse la crisi del sistema. “Un contenitore – scriveva – arioso, non può essere solo partitico, deve essere aperto alle forze della cultura, del diritto, delle categorie professionali, dell’economia e del lavoro coscienti dell’effetto totale in tutti settori del cambiamento presidenzialista”. A tal fine proponeva “un’alleanza per il presidenzialismo” come collante in grado di tenere insieme forze diverse e lontane, poiché era il solo tema “interpartitico, interventista, trasversale”.

Era in buona compagnia Tatarella. In quello stesso anno, Indro Montanelli, preso atto dell’insostenibilità della classe politica così come era strutturata a reggere il confronto con il bisogno di innovazione che si levava nella società, annotava: “Non c’è che una speranza: che facciano in tempo gli italiani ad accorgersi che questo sistema, che non ha nemmeno la forza di constatare il proprio decesso, va in qualche modo seppellito: il suo cadavere rischia di ammorbare tutto il Paese”.

Il presidenzialismo – oggetto di una proposta di legge da parte di Tatarella, reiterata all’inizio di ogni legislatura – poteva essere il “viatico” per la destrutturazione e la ristrutturazione del sistema. Le cose sono andate come sappiamo, purtroppo. Tuttavia esso resta il più formidabile esperimento tentato per dar vita a quel “fusionismo” all’italiana che oggi è tornato, con incerte fortune, d’attualità nella discussione politica. In effetti la carta presidenzialista avrebbe dovuto essere il fulcro del movimento “Oltre il Polo”, più che un cartello elettorale, un movimento eterogeneo di forze unite dagli stessi valori politici e da un “sentire” comune. Il suo obiettivo era quello di “allargare la coalizione di centrodestra ai soggetti che, pur non volendo la vittoria della sinistra, non sono ancora impegnati con i partiti ed i movimenti che oggi compongono lo schieramento moderato”. Perciò Tatarella si rivolgeva a chi guardava con una certa perplessità al Polo, ma non voleva comunque far vincere la coalizione egemonizzata dal Pds. Insomma, era convinto che ci fosse “uno spazio aperto, diffuso, indeciso, moderato, che non emerge, non si esprime, non si schiera apertamente e che finora non ha ritenuto opportuno schierarsi con nessuna delle forze del Polo: questo mondo sommerso deve diventare soggetto visibile ora che la coalizione di centrosinistra è diventata di sinistra-centro con il congresso egemone del Pds”. Così scriveva Tatarella quattordici anni fa sul periodico “Centrodestra”, ennesima creatura da lui partorita per far vincere le ragioni di una democrazia compiuta.

E che dovesse essere davvero “compiuta” la democrazia italiana dopo la fine delle scadute famiglie politiche, Tatarella lo aveva ben presente al punto di lanciarsi, anima e corpo, nella Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema che lui considerava un “laboratorio” nel quale far prevalere le innovazioni che fin là aveva soltanto potuto teorizzare. La pigrizia di molti e l’opportunismo dei più fece abortire il tentativo. E, di conseguenza, anche sul piano interno al centrodestra, l’operazione di “oltre il Polo”, il fusionismo tatarelliano insomma, si fermò sulla soglia dell’ambizione frustrata.

Oggi ci rimane il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato. Tatarella, resta comunque, il nostro Barry Goldwater. L’accostamento lo avrebbe fatto sorridere. Ma con lo statista dell’Arizona aveva, a ben vedere, molti punti in comune. E lui, sognatore di Cerignola, in quanto a strategie politiche non aveva nulla da imparare da nessuno. Siamo noi, “fusionisti” un po’ immalinconiti ed invecchiati, che da lui abbiamo ancora tanto da apprendere.

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