Da qualche tempo, si assiste all’insorgere di questioni, per certi aspetti nuove, che ben evidenziano il cortocircuito democratico del raccordo fra popolo e istituzioni. Scrive Stanislao Chimenti, partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr&Gallagher
La recente elezione del Presidente della Repubblica ha mostrato vari profili di marcata atipicità, se non di vera e propria rottura di alcuni schemi consolidati nel tempo.
La ricerca del consenso e il raggiungimento degli accordi è sempre stato un problema classico della politica e, in particolare, delle dinamiche parlamentari. Tuttavia, da qualche tempo, si assiste all’insorgere di questioni, per certi aspetti nuove, che ben evidenziano il cortocircuito democratico del raccordo fra popolo e istituzioni.
In effetti, il sistema dei partiti, inaugurato con l’entrata in vigore della Costituzione, prevedeva la preventiva ricerca del consenso popolare. Questa procedura era logicamente coerente con i meccanismi della politica che si poneva come strumento quanto meno di impulso, se non di guida: venivano predisposti dei programmi, appunto politici, che, successivamente, venivano sottoposti al vaglio del Paese, ovvero delle istituzioni, per verificarne il gradimento e il consenso da parte degli elettori.
La predisposizione di tali programmi e la loro implementazione alimentavano un preventivo dialogo interno alle forze politiche con la propria base elettorale, le proprie articolazioni; si apriva così un confronto e un dibattito fra i vertici e la base, e ciò anche nei partiti e nelle strutture più rigide e gerarchizzate.
Il fenomeno, ora, sembra essersi ribaltato: l’insorgere dell’astensionismo e dell’allontanamento dalla politica hanno prodotto leader che godono di un consenso che è espressione solo di una parte minima dell’elettorato. In questo contesto, la politica sembra avere smarrito la propria legittimazione democratica e quindi il meccanismo è invertito: i leader di partito effettuano delle scelte che debbono essere poi sottoposte alla base in via di successiva ratifica, perché i vertici (segretari, capi di movimento ecc.) non sono sufficientemente rappresentativi e, quindi, rischiano in ogni momento di essere delegittimati in un quadro di consenso e gradimento che pare sempre più volatile.
Ma questo sistema genera anche un effetto paradossale: in talune situazioni, questa ratifica successiva assume i contorni di un vuoto formalismo: difatti, riesce difficile immaginare che le dinamiche parlamentari e governative, dettate spesso da tempistiche stringenti, siano compatibili con lo svolgimento di ampli dibattiti. Inoltre, a venir meno, sarebbe necessariamente la certezza delle decisioni politiche e degli impegni assunti, semmai con alleati di coalizione, con ciò generandosi una sorta di continua precarietà che non è coerente con intuitive esigenze di chiarezza e stabilità.
È così, dunque, che i membri del Parlamento sono spesso chiamati a esprimere il loro voto senza essere stati preventivamente informati a sufficienza delle questioni in oggetto; il preavviso è diventato minimo – se non inesistente – e si esprime in “indicazioni di voto” impartite dall’alto delle strutture di partito, semmai tramite strumenti come gli sms telefonici, cui i parlamentari si attengono pedissequamente.
In questo modo si accentua ed esaspera il fenomeno di svuotamento delle funzioni più autentiche e tipiche del Parlamento che, per definizione, dovrebbe invece essere il luogo istituzionale per eccellenza deputato allo svolgimento del dibattito, del dialogo e del contraddittorio.
Anche questi profili sarà dunque necessario indagare per far sì che la Costituzione e, in particolare, il parlamentarismo voluto dai costituenti, non siano nei fatti svuotati da una prassi strisciante e forse occulta, ma non per questo meno rilevante.