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La differenza della leadership

Non è retorico auspicare che, in un tempo segnato da straordinari cambiamenti e conseguenti ragioni di insicurezza, i due grandi partiti popolari concorrano ad assumere le decisioni necessarie a produrre stabilità e crescita. Anche quando impongono discontinuità rispetto ai loro stessi comportamenti pregressi.
 
Per il Popolo della libertà il governo Monti rappresenta da un lato la negazione di quel primato della società che ha voluto affermare attraverso la scelta diretta del premier e della coalizione che lo sostiene. Ma, dall’altro lato, esprime oggettivamente la capacità di realizzare l’ultimo miglio delle sue riforme – quello più difficile – ottenendo quel consenso che la sinistra ha negato a ipotesi di cambiamento molto più moderate. Monti e la sua compagine, infatti, sono stati chiamati a completare quella agenda europea che i provvedimenti del governo Berlusconi avevano solo in parte, e tra molte contestazioni, avviato.
 
Così è accaduto, e può ulteriormente verificarsi, per la stabilizzazione del sistema previdenziale, per la coniugazione degli obiettivi di flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro, per la effettiva liberalizzazione dei servizi pubblici locali, per la conduzione ad efficienza delle pubbliche amministrazioni, per l’attuazione del federalismo fiscale attraverso i costi e i fabbisogni standard nella sanità e nelle municipalità, per le riforme del sistema educativo e dell’apprendistato. Usque tandem? Fino a quando il governo della eccezione alla buona regola democratica, si rivelerà utile. Utile ad affrontare l’instabilità emergenziale e a promuovere un ambiente più competitivo e inclusivo per crescere con occupazione.
 
Queste sfide tuttavia invocano una alta e omogenea visione politica. Perché l’intesa europea per una comune politica di bilancio è ancora monca di un adeguato scambio con efficaci presidi di stabilità. E perché la crescita può essere solo il risultato di una forte mobilitazione della comunità nazionale. Sono risultati questi che richiedono, nei luoghi della mediazione sovranazionale come nel dialogo sociale interno, un impulso soggettivo che solo una leadership certificata da un esplicito consenso elettorale può produrre.
 
E tuttavia il voto potrà definire gli assetti di governo, a questo punto, in due modi. O sulla base di una coalizione maggioritaria o in conseguenza di una forte frammentazione destinata ad essere ricomposta solo dopo il voto. La differenza, ai fini della autorevolezza della leadership, è evidente. Nel secondo caso sarebbe almeno necessario definire regole del gioco che premino il partito a vocazione maggioritaria – e il suo candidato – che, conquistando la posizione primaria, è abilitato a definire intorno a sé la coalizione di governo. Ma soprattutto nel primo caso si potrebbe trasporre nella rappresentanza democratica quella maggioranza della società italiana che sappiamo unita dai valori cristiani della tradizione e dalla visione liberale e solidale. Solo così la politica si dimostrerebbe non autoreferenziale e orientata al bene comune. La sua frammentazione sarebbe infatti percepita come un ulteriore elemento di disgregazione e di declino. Tanto quanto una rinnovata coalizione dal pensiero “forte” evocherebbe immediatamente coesione nazionale, voglia di futuro, responsabilità diffusa. Basta volere!


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