Se la guerra in Ucraina non dovesse fermarsi, gli economisti della banca d’affari elvetica sono pronti a scommettere su un aumento dei prezzi a fronte di una crescita anemica. E non solo loro. Un guaio per imprese e famiglie, la cui ricchezza non sarebbe sufficiente a soddisfare le spese
Per il momento è solo uno spauracchio, un rumore di sottofondo. Ma presto potrebbe diventare realtà. La stagflazione incombe sull’Europa (qui l’intervista all’economista Innocenzo Cipolletta). Il binomio è di quelli che fanno male: aumentano i costi delle materie prime, aumentano i prezzi al consumo ma la crescita rimane anemica, affannosa, stagnante. In altre parole, la vita costa di più ma non c’è sufficiente ricchezza per soddisfare i bisogni, agganciando la domanda all’offerta.
Gli economisti di tutto il mondo si stanno interrogando in questi giorni sul futuro dell’economia globale, travolta dalla guerra in Ucraina, proprio mentre la grande pandemia dava i primi cenni di rallentamento. Con l’aumento delle materie prime, a cominciare dal gas, le imprese potranno restare in piedi solo se riusciranno a scaricare i costi sul prezzo finale, quello che finisce sullo scaffale del supermercato o nei negozi. Altrimenti potrebbe essere molto difficile poter andare avanti.
Gli esperti del Credit Suisse, una delle principali banche d’affari in Europa, hanno dedicato un apposito report al fenomeno della stagflazione. Partendo da un presupposto. “Il meccanismo principale attraverso il quale il conflitto tra Russia e Ucraina influenzerà probabilmente l’economia europea è attraverso i prezzi elevati delle materie prime, o in un caso più pessimistico, una potenziale interruzione della fornitura di materie prime dalla Russia”, scrivono gli economisti della banca elvetica.
“Detto questo, ci sono anche altri fattori. Non sminuiremmo, per esempio, l’importanza dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e il loro impatto sulle finanze delle famiglie – Russia e Ucraina producono il 28% del grano globale e il 18% del mais – gli avvertimenti di un potenziale peggioramento dei colli di bottiglia della catena di approvvigionamento e un inasprimento delle condizioni finanziarie, che potrebbe smorzare la fiducia delle imprese e delle famiglie”.
E allora? La conclusione del Credit Suisse è semplice. Il rischio stagflazione c’è. “Ci sono due sviluppi chiave sviluppi che potrebbero, a nostro avviso, portare a un risultato di stagflazione: Un ulteriore aumento significativo e sostenuto dei prezzi delle materie prime e un’interruzione significativa della fornitura di petrolio e gas russo all’Europa”. La prima è già avvenuta, manca solo la seconda.
Anche gli economisti di Citi, prima banca mondiale, hanno prospettive simili. Prevedendo una crescita del pil dell’Eurozona del 3,3% quest’anno, in calo rispetto alla previsione del 3,9% di tre mesi fa. Al contempo aumenta la proiezione sull’inflazione nel 2022 dal 2,8% al 4,6%. Ed è lecito immaginare alcuni parallelismi con l’esperienza della stagflazione degli anni ’70. Dopo la guerra dello Yom Kippur nell’ottobre 1973, un embargo aumentò i prezzi del petrolio di 3,5 volte. Il pil degli Stati Uniti si contrasse per cinque trimestri consecutivi nel 1974-1975, anche se l’indice dei prezzi al consumo è rimasto al di sopra del 10%. Succederà anche in Europa?