“C’è più potere nella musica rock, i video, i jeans, il fast food, i notiziari e satelliti tv che in tutto l’esercito rosso”. La storia di come una mostra nel 1959 rese il denim americano oggetto del desiderio dei russi e simbolo della dissidenza all’era sovietica
Da Starbucks a McDonald’s, sono in tante le imprese occidentali che hanno deciso di sospendere temporaneamente attività e investimenti in Russia in seguito all’invasione in Ucraina. Ma il ritiro di una compagnia, che ha un vincolo culturale e di identità con l’era post-sovietica, fa davvero male: Levi’s.
Secondo l’ultimo report dell’Università di Yale sono circa 300 i brand che hanno fermato i business sul territorio russo, facendo ripiegare i russi su marchi e aziende nazionali. La scelta di dire addio al mercato della Russia di Levi’s però è molto sentita, secondo un articolo del quotidiano britannico Financial Times.
“Considerando le enormi perturbazioni nella zona, che non permettono lo sviluppo normale, Levi’s sospende temporaneamente le sue operazioni commerciali in Russia, includendo qualsiasi nuovo investimento”, si legge in un comunicato della compagnia americana diffuso lunedì.
Una decisione difficile e costosa: le attività del gruppo nell’est dell’Europa rappresentano il 4% del fatturato totale nel 2021, e più della metà di questi in Russia. Ma “tutte le considerazioni commerciali sono chiaramente secondaria in confronto alla sofferenza di tante persone”, aggiunge l’impresa.
Il legame del popolo russo con Levi’s risale alla fine degli anni ’50, diventò uno dei brand con più impatto d’ispirazione tra i giovani russi. “Quando Richard Nixon inaugurò l’Esposizione Nazionale degli Stati Uniti a Mosca nel 1959, c’erano bottiglie di Pepsi-Cola, macchine fotografiche Polaroid e Dodge per fare vedere al primo ministro sovietico Nikita Khrushchev – ricorda il Financial Times -. Ma uno dei più grandi successi è stato lo stand di Levi Strauss nei quali gli americani, vestiti da cowboy, cantavano. La richiesta dei pantaloni dell’impresa è stata impressionante e molti dei pezzi sono stati rubati”.
Erano i tempi dell’Unione Sovietica e la Guerra Fredda, con permessi limitati da parte del Cremlino sugli articoli di consumo che il popolo russo poteva avere e poca conoscenza sull’esistenza di questi articoli. Avere avuto la possibilità di vedere da vicino un pezzo come i jeans Levi’s scatenò un boom inaspettato, che l’ha trasformato anni dopo in un’icona della liberazione e la dissidenza pacifica all’opposizione sovietica. Tra tutti i jeans il più simbolico era il modello Levi’s 501.
“I Levi’s 501, i jeans della copertina dell’album ‘Born In The USA’ di Bruce Springsteen nel 1984, sono diventati un potente simbolo della dissidenza nell’epoca sovietica – prosegue il FT -. Già nel 1972, la rivista statunitense Life raccontava trionfalmente che ‘i jeans che prima coprivano gli squallidi sederi dei cowboy e i minatori dell’ovest americano sono diventato il vestito standard della gioventù mondiale”.
“La voglia del denim americano, apprezzato per essere più morbido dei ruvidi vestiti di lavoro dei fabbricanti tessili russi, è diventata un esempio tangibile del potere blando della cultura americana e del capitalismo occidentale”, si legge sul Financial Times.
Nel 1984, un lettore di Pravda ha scritto al giornale del Partito Comunista: “Quando fare un paio di jeans migliori di quelli di Levi’s, sarà il momento di cominciare a parlare di orgoglio nazionale’, mentre il filosofo francese Régis Debray disse nel 1986: “C’è più potere nella musica rock, i video, i jeans, il fast food, i notiziari e satelliti tv che in tutto l’esercito rosso”.
“Questa storia – conclude il giornale britannico – aiuta a capire l’elevato simbolismo della decisione di Lev’is di questa settimana di sospendere le vendite in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina di Vladimir Putin”.