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Così il military casual di Zelensky ispira i combattenti stranieri

Dalla Legione Straniera ai gruppi privati, a Kiev arrivano i rinforzi galvanizzati anche dalla comunicazione del presidente Zelensky. Putin muove i suoi sgherri

Sui social network sta circolando un’immagine: soldati in posa come una squadra da calcio con i volti coperti da un’emoji a forma di teschio (richiamo all’iconografia tipica di forze speciali o soldati di ventura). Sono armati con Ak-74, mitragliatrici Malyuk, fucile di precisione Dragunov, alcuni vestono una mimetica Geo7 che si trova online a meno di cinquanta dollari, altri hanno gilet tattici imbottiti di caricatori e maglione. Sarebbero francesi, volontari organizzati dell’ex Legione Straniera si dice, che sono arrivati in Ucraina per dare supporto a Kiev. Sono tra quelli che si muovono a titolo privato e la loro presenza sul terreno è plausibile, non saranno determinanti ma sono un aiuto davanti all’invasione russa.

Con loro altri militari occidentali sono finiti a combattere per aiutare gli ucraini a difendersi dalla guerra di Putin. Complice anche (o forse soprattutto per) la comunicazione efficace innescata dal presidente Volodymyr Zelensky, che quotidianamente, da venti giorni, si presenta per i discorsi pubblici, al popolo ucraino e al mondo, sempre in tenuta tattica da combattimento. Tanto che il presidente francese Emmanuel Macron è sembrato finire contagiato da questo look e si è presentato in military casual per un serie di scatti apparentemente rubati mentre lavorava all’Eliseo (il francese indossava una felpa col logo del CPA, il Commando Parachutiste de l’Air, forze speciali aviotrasportate dell’aviazione). Sia mai che arrivano le presidenziali e non ho niente da mettermi.

Un americano, Jericho Skye del Montana, racconta al filmaker libanese Oz Katerji le ragioni che lo hanno portato a viaggiare per migliaia di chilometri fino a difendere Kiev. Sostanzialmente c’è l’idealismo del dare supporto alle forze democratiche ucraine aggredite, ma pure una componente di impeto coraggiosa quasi irrazionale (chi lo farebbe di noi?). E però durante l’intervista una signora locale si ferma e gli chiede una sigaretta, lui le dà il pacchetto e vengono in mente i racconti delle nostre nonne, quando quelle signore erano loro e chiedevano le saponette Palmolive alle forze alleate che liberavano l’Italia dai nazisti.

Skye fa parte della Legione Straniera Ucraina, insieme a Jake Priday, un ex militare e ora insegnante di Cardiff la cui storia è raccontata dall’Economist. Il genere foreign fighters (che siano in proprio come quei francesi o organizzati come la legione) tira tra i giornali internazionali. Le storie di questi eroi lontano dall’ordinario occidentale fa da sfogo a una sostanziale impotenza: gli aiuti all’Ucraina potrebbero essere anche di più, ma nessun Paese – a cominciare dagli Stati Uniti – hanno la minima intenzione di aumentare il coinvolgimento e rischiare lo scontro militare aperto con la Russia.

Anche perché la maggioranza dei cittadini di Usa e Ue non accetterebbero quello che potrebbe essere lo scoppio di una Terza guerra mondiale. La via della Legione Straniera Ucraina è anche una forma di aiuto ibrido. Privati cittadini che hanno risposto a una chiamata di Zelensky del 27 febbraio, il terzo giorno d’invasione: arruolatevi per noi diceva il presidente (che forse in cuor suo sapeva che le richieste ufficiali all’Occidente non sarebbero andare oltre un certo livello).

Al Jazeera ha ricostruito i componenti maggioritari di questa forza difensiva che sta partecipando a complicare la strada ai russi; che più che altro hanno trovato grossa resistenza dagli ucraini dell’esercito regolare, ma hanno anche dimostrato incapacità tattica dei pianificatori, impreparazione delle truppe, inadeguatezza dei mezzi e corruzione tra gli apparati di intelligence che dovevano preparare l’invasione (l’Fsb aveva a disposizione 5 miliardi di rubli per creare un tessuto connettivo permeabile tra i russi ucraini, che avrebbero dovuto aprire le porte all’invasione, ma i suoi dirigenti pare li abbiano sottratti alle casse del Cremlino, tant’è che sono in corso purghe volute direttamente da Vladimir Putin).

Per arruolarsi basta andare nell’ambasciata ucraina nel proprio Paese, l’annuncio circola sui social network. Tant’è che il dipartimento di Stato si è trovato costretto a chiedere ai cittadini americani di fermarsi, di evitare di andare a combattere perché si rischia la vita – e soprattutto la morte di uno statunitense, seppure volontario, è una complicazione politico-diplomatica. Sono arrivate oltre seimila richieste di arruolamento a Washington. Le ambasciate ucraine mandano i volontari in Polonia: è quel confine, attorno a cui sono piovuti recentemente i missili di Putin, a fare da membrana permeabile per questi rinforzi ufficiosi, come per quelli ufficiali inviati da Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito in forma ufficiale.

Gli ucraini controllano tutti i passaporti di coloro che vengono accompagnati tramite i fixers polacchi sul proprio territorio. Temono infiltrazioni, tengono un registro, hanno chiesto esperienza militare nell’application form diffuso online, ma la guerra è guerra e quei legionari vengono mandati a combattere contro un nemico serio. Il rischio è alto. Non è come gli arruolamenti contro lo Stato islamico che arrivavano anni fa nel Kurdistan iracheno: lì si combattevano miliziani in ciabatte che in molti casi imbracciavano un fucile per la prima volta; qui si sta combattendo un paese reale, con un vero esercito, con una vera marina, con forze speciali, armi e capacità tattiche formate (seppure l’efficienza discutibile).

Il contratto è basso, poche centinaia di dollari al mese per un impiego a tempo indefinito sotto le regole della legge marziale imposte da Zelensky. Che come detto è l’ispiratore di molti di loro: i suoi discorsi sono pervasivi, emozionali quanto basta, eroici senza sfociare nell’hybris. Ci sono immagini di un ex militare lituano (diversi sono quelli che vengono dai Paesi baltici, tra loro il parlamentare lettone Juris Jurašs e l’ex ministro della Difesa georgiano Irakli Okruashvili) che indossa una maglia con scritto in ucraino, giallo e blu, “russi fottetevi”, ossia la risposta che il guardia coste dell’isola dei Serpenti sul Mar Nero disse alle navi di Mosca che lo stavano attaccando. È già epica, un meme globale, il “io amo il mio paese, morirei per lui” della guerra di Putin.

Secondo il New York Times, alcuni di questi foreign fighters pro-Kiev sono rimasti feriti, forse uccisi, durante il bombardamento missilistico che ha colpito la base di Yavoriv, quella che ospita anche un training center dove hanno lavorato pure i soldati Nato e che si trova a pochi chilometri dal confine polacco. Farebbe da hub, Mosca l’avrebbe colpita come simbolo dei rapporti tra l’Ucraina e l’Alleanza Atlantica, ma anche per ragioni tattiche. BuzzFeed ha tracciato americani, canadesi e tedeschi ex forze speciali; TT News Agency oltre 400 svedesi; il primo ministro ceco Petr Fiala ha detto che non verranno perseguiti per eventuali reati coloro che combatteranno in Ucraina (sono circa 300 pare); la Foreign Secretary, Liz Truss, ha più o meno supportato le scelte coraggiose di chi è partito; addirittura ci sarebbero una settantina di giapponesi (Tokyo è parte del fronte anti-Mosca).

Le autorità ucraine dicono che ci sono 20mila volontari, mossi da 52 Paesi, ma va tenuto conto che spesso Kiev ha ingigantito le cifre a proprio interesse durante questi giorni. Anche questa è infowar, serve a demoralizzare i russi sul campo. Da Mosca la risposta è stata la richiesta di mobilitazione di altri 16mila uomini, mercenari siriani affiliati ai gruppi che hanno salvato la vita a Bashar el Assad – collegati all’Iran tanto quanto al regime, foraggiati dai russi, noti per settarismo e brutalità, pronti a pagamento per diventare carne da cannone tra i fanghi gelati di Kharkiv o Kiev.

Anche il dato russo è difficile da verificare: Mosca è abile nel modificare il contesto informativo, nel far circolare realtà alterate. Quello certo è che sul campo ci sono i ceceni, combattenti spietati già accusati di crimini di guerra di vario genere. Potrebbero essere loro, con i siriani, uno degli elementi che indica la trasformazione dell’offensiva in assedi sfiancanti, combattimenti urbani come quelli con cui Putin vuole prendere Kiev, pena la sconfitta. Il loro leader, Ramzan Kadyrov, lo chiamano il “macellaio”: il suo manifesto di guerra è “arrendetevi o vi finiremo” (“Ti mostreremo che la pratica russa insegna la guerra meglio della teoria straniera e delle raccomandazioni dei consiglieri militari“, dice sul suo canale Telegram in cui racconta la guerra).



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