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Assad a Dubai fa indispettire gli Usa

Il raìs siriano è stato ormai riqualificato dagli Emirati, che vogliono seguire una propria agenda su cui gli Usa pubblicamente devono storcere il naso

Per la seconda volta in cinque mesi gli Stati Uniti mandano un messaggio severo di richiamo agli Emirati Arabi Uniti per lo sbilanciamento nella ricostruzione dei rapporti con il rais siriano Bashar el Assad — responsabile della stragrande maggioranza dei quasi quattrocentomila morti durante questi undici anni di guerra civile.

Washington si è detta “profondamente delusa” dall’apertura emiratina concessa ad Assad, che ieri, venerdì 18 marzo, è stato ospitato a Dubai in quella che è stata la sua prima visita ufficiale in un Paese arabo dal 2011. Gli Emirati sono i più attivi nel processo per re-inserire la Siria nella Lega Araba — i cui componenti hanno sponsorizzato per anni le opposizioni, anche le unità ribelli più violente, al regime assadista.

Questi contatti, che seguono l’invito del ministro degli Esteri emiratino a Damasco, si inseriscono in un quadro di dialogo che riguarda la regione del Mediterraneo allargato. Quadro in cui Abu Dhabi, anche cavalcando il soft power dell’Expo, vuole giocare il ruolo di motore. E se questo piace a Washington — che si vuole disimpegnare dalla regione e per questo cerca ordine — per l’amministrazione Biden è complicato accettare pubblicamente la riqualificazione di un dittatore con le mani sporche di sangue.

Joe Biden, che ha elevato la democrazia a vettore di politica internazionale, deve necessariamente, per essere credibile con partner e constituency, essere critico su questi scatti. Gli Emirati, nonostante le critiche, procedono per la loro agenda (che forse in via informale è anche accettata dagli americani). Agenda che comprende anche il dialogo aperto con la Cina (che ha prodotto l’uscita emiratina dal programma F35) o con la Russia (sul petrolio), o ancora con la Siria e con l’Iran per quanto possibile nell’ambito delle rivalità regionali.

L’iniziativa emiratina ha anche una ragione infatti: tentare di sganciare Assad dall’Iran, che ha colto l’occasione della guerra civile per assistere il regime di Damasco e crearsi un credito. Questa attività non dispiace a Israele, alleato emiratino tramite gli Accordi di Abramo. I fondi di Abu Dhabi sono tutt’altra partita rispetto a quelli iraniani, e promettendo impegno sulla ricostruzione siriana cercano di costruire un legame con Assad in modo tale da ottenere in cambio un disallineamento dall’Iran — ossia dal Paese finanziatore delle milizie sciite che odiano lo stato ebraico e le monarchie sunnite del Golfo. Ossia serve a indebolire l’impronta regionale dell’avversario imponendosi uno dei suoi asset.

Assad si è anche recato nella capitale degli Emirati, Abu Dhabi, per incontrare il principe ereditario Mohammed bin Zayed. Secondo i media statali emiratini, “ha sottolineato che la Siria è un pilastro fondamentale della sicurezza araba, e che gli Emirati sono desiderosi di rafforzare la cooperazione [con Damasco]”.

Gli Stati Uniti sono contrari agli sforzi per normalizzare le relazioni con il leader siriano fino a quando non si faranno progressi nella risoluzione della guerra civile. “Esortiamo gli stati che stanno considerando un impegno con il regime di Assad a valutare attentamente le orribili atrocità che il regime ha commesso contro i siriani nell’ultimo decennio”, ha detto il portavoce del dipartimento di Stato sottolineando i punti fondamentali di ciò che Washington vuol far percepire della questione.

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