Trecento parlamentari ieri si sono assentati per loro scelta; nella prossima legislatura saranno assenti per decisione delle forze politiche di riferimento, vittime sacrificali di una riforma piena di demagogia che ha tagliato i parlamentari senza corredarla dei necessari contrappesi istituzionali. Gli altri seicento, invece… Il mosaico di Carlo Fusi
Mettiamola così, e forse il quadro politico si chiarisce. I trecento che hanno disertato l’aula di Montecitorio per non ascoltare le parole del presidente ucraino Volodymyr Zelenski hanno solamente anticipato il loro destino. Ieri si sono assentati per loro scelta; nella prossima legislatura saranno assenti per decisione delle forze politiche di riferimento, vittime sacrificali di una riforma piena di demagogia che ha tagliato i parlamentari senza corredarla dei necessari contrappesi istituzionali.
Gli altri seicento sono l’esercito di Mario Draghi. Sono cioè la massa di manovra (praticamente l’intero Parlamento che verrà tra pochi mesi, almeno nei crudi numeri) su cui si potrebbe/dovrebbe fondare la maggioranza della prossima legislatura.
Già, perché il punto politico che squaderna la realtà dei fatti è proprio qui. Nella consapevolezza cioè che la guerra in Ucraina ha cambiato il volto della politica mondiale, definendo uno spartiacque destinato a durare nel tempo e a stabilire ineludibili alleanze e contrapposizioni. Il pressing più immediato e più lancinante è perché si arrivi ad un cessate il fuoco che salvi la vita di minori e innocenti. Ma dopo, la divaricazione Est/Ovest, il duello planetario Cina-Usa, il futuro di Putin e quello della Ue saranno temi fondanti e non aggirabili. Quando Zelensky avverte che nell’aggressione di Mad Vlad a Kiev e nella resistenza degli ucraini armi in pugno la posta in palio è la democrazia e il modello di rapporti tra popoli che ha consentito settant’anni di pace, coglie nel segno. Ed è un segno con il quale tutti dovranno fare i conti.
I seicento di Draghi – assiepati nel Parlamento italiano diciamo pure stavolta all’altezza della situazione e tutt’altro che in veste di scatoletta di tonno – che hanno applaudito il leader ucraino e poi hanno ascoltato il presidente del Consiglio italiano scandire che l’Ucraina deve stare in Europa e che l’Italia è pronta ad aiutarla anche con il sostegno militare, rappresentano il piedistallo di una scelta atlantista, occidentale, di sicurezza destinata a protrarsi nel tempo. Non la semplice politica estera bensì la più impegnativa e scabrosa politica di guerra, infatti, sarà il banco di prova delle larghe intese in questa fase finale della legislatura e poi, assai più significativamente, il piedistallo coalizionale dell’esecutivo che arriverà. Guidato o meno da SuperMario si vedrà.
Sì, perché la questione del premier è l’altra faccia dell’esercito dei 600. Con qualche strappo e una serie di distinguo, specialmente da parte di M5S e Lega, il capo del governo sta guidando con mano sicura l’Italia nel coacervo degli interessi europei, assegnando a Roma un profilo netto nell’appoggio alla pace ottenuta bloccando le mire espansionistiche di Mosca e rilanciando la sempiterna traballante unità europea verso la definizione di obiettivi comuni per esempio nell’ approvvigionamento energetico. Insomma con la sua determinazione Draghi porta l’Italia ad essere un bastione della deterrenza che necessariamente dovrà fondarsi tanto su concordia di azione politica di Bruxelles quanto sulla creazione di una difesa comune della quale l’aumento delle spese militari, assegnando alla Difesa il 2 per cento del bilancio italiano, è conditio sine qua non.
Ma l’Italia si appresta ad elezioni all’inizio del prossimo anno. Come si comporteranno i partiti in campagna elettorale? Il filo unitario tenacemente sostenuto dal Palazzo Chigi resisterà alle pressioni degli interessi delle singole forze politiche? È un interrogativo decisivo. Perché qualunque sarà il responso delle urne, subito dopo i 600 eletti dovranno misurarsi con la necessità di non tagliare quel filo e anzi rafforzarlo. Non sarà facile. Oggi l’esercito dei Draghi subisce ammutinamenti spuri che cozzano col sentimento prevalente nell’opinione pubblica e tuttavia riesce a tenere ordinate e coese le fila. Domani potrebbe finire nel deserto dei Tartari delle ambiguità.