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Tutto quello che avreste voluto sapere sulla crisi

La crisi economica degli ultimi anni, la più pesante dopo quella del ´29, ci ha consegnato un mondo diverso. Infatti, dopo la crisi finanziaria del 2007 ci sono stati il crac Lehman, i titoli tossici, i salvataggi di stato e la crisi dell’euro. Politici ed economisti, noti soprattutto per spiegare le crisi e non nel prevederle, si sono affannati nel tentativo di trovare le misure più idonee per contrastarla. In Italia, inoltre, alla fine del 2011, abbiamo perfino assistito a un cambio di governo per le pressioni create dalla situazione economica e dallo spread rispetto al bund tedesco.
 
Nel corso di questi anni sono stati scritti fiumi d’inchiostro per spiegare le ragioni di questo importante rallentamento dell’economia, ma cosa si nasconde dietro questa crisi mondiale? Quali sono le ragioni? La finanza che ruolo ha avuto? Qual è stata l’influenza dell’America nello scatenare la crisi e, poi, quali politiche ha adottato? Il sistema capitalistico, dopo la caduta del muro di Berlino, è entrato in crisi? Proviamo a rispondere a questi interrogativi, per evidenziare come, in questo particolare momento, la politica giochi un ruolo fondamentale per permettere al sistema di ripartire e portarlo su un sentiero di crescita.
 
Cerchiamo di capire come siamo arrivati a questa situazione. Il sistema internazionale dal secondo dopoguerra fino al 1971 è stato governato dagli accordi di Bretton Woods, che ripristinarono le condizioni di libero scambio. A parte qualche tensione per la posizione privilegiata del dollaro, quest’accordo aveva funzionato soprattutto perché aveva garantito innovazione e benessere. Ex post questo periodo fu definito come il secolo socialdemocratico, le conquiste del welfare state, ma questa età dell’oro del capitalismo non è durata un secolo ma circa trent’anni. Ciò che è da evidenziare dell’accordo è che furono limitati i movimenti internazionali di capitali. La finanza era sostanzialmente ancora al servizio dell’economia reale. Le banche commerciali erano separate dalle banche d’investimento. Negli Stati Uniti questa separazione era entrata in vigore dal 1933, con il Glass-Steagall Act, in seguito ai fallimenti dovuti alla crisi del ´29.
 
Nel 1971 per i crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti dell’America fu sospesa la convertibilità del dollaro con l’oro. La conseguenza fu che il sistema, sganciato dall’oro e dai cambi fissi, subiva pesantemente la discrezionalità delle politiche monetarie americane. Un decennio dopo negli anni ’80, gli anni di R. Regan e M. Thatcher, furono liberalizzati i movimenti di capitale, il cui effetto ha generato enormi movimenti internazionali. Inoltre, negli anni ’80 inizia una fase di deregolamentazione del comparto finanziario. Da registrare che sia Regan sia Clinton scelsero come segretario al Tesoro direttori di banche di investimento come D. Regan di Merryll Linch e Robert Rubin di Goldman Sachs. A metà degli anni ’90 ci fu l’esplosione dei derivati, si tentò di regolamentarli ma una forte opposizione delle Lobby bloccò tutto. Greenspan dichiarò che “regolamentare le transazioni dei derivati, che sono negoziati da professionisti, non è necessario”. Nel 1999 con il Gramm-Leach-Bliley Act si elimina la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento. S’iniziano a effettuare investimenti rischiosi anche con i risparmi dei clienti e le banche con la rimozione dei limiti operativi cominciano ad espandersi sul territorio oltre determinate dimensioni. Le politiche monetarie USA, al contrario degli anni ’80 con Volcker molto attente al controllo dell’inflazione, alla fine degli anni ’90 e inizi del 2000 sono state molto espansive, con tassi reali addirittura negativi, e di stimolo all’indebitamento. Nel 2004 il tasso della FED era dell’1%. Infine, è utile evidenziare che tra il 1970 e la fine del secolo lo stock finanziario complessivo ha raggiunto 3 volte il valore della produzione mondiale (53.000 miliardi di dollari!).
 
Il risultato di questo nuovo ordine è una trasformazione radicale del ruolo della finanza, non più concepita in relazione ad un fine l’investimento, o di supporto-copertura all’attività imprenditoriale, ma per creare un’economia fondata sul debito e sulla leva finanziaria. Basti pensare che l’indebitamento complessivo americano è salito dal 160% del pil nel 1974 a oltre 350% del pil nel 2008. Gli strumenti sono ormai noti, deregolazione delle norme riguardanti il contenimento della leva finanziaria e la creazione di nuovi strumenti finanziari, in particolare titoli cartolarizzati e titoli derivati, il tutto stimolato da una politica monetaria molto accomodante iniziata con la presidenza Clinton.
 
Approfondiamo il discorso per vedere chi era seduto al tavolo da gioco prima dello scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime che ha poi contagiato l’intero sistema finanziario americano e poi europeo. Un protagonista importante è stata la banca d’affari Goldman Sachs, già consulente del governo greco di centro-destra, punto di riferimento per tutti i giocatori con 35.000 dipendenti e un ex presidente, Henry Paulson, nominato da Bush nel 2006 come segretario del Tesoro. La storia si ripete! Da rilevare che nel 2006 Goldman Sachs vendette circa 3 miliardi di dollari di CDO. Nonostante la multa di 550 milioni di dollari pagati alla SEC, l’organo di controllo della borsa americana, ha continuato tranquillamente a giocare con gli hedge-funds attraverso Jonh Paulson, omonimo di Henry, fondatore del fondo Abacus. Quest’ultimo si è rivolto alla banca d’affari per il collocamento del suo Hedge Fund Abacus. I risparmiatori attratti dal rendimento dei titoli li hanno sottoscritti in massa non capendo la rischiosità sottostante, ovvero che erano pieni di titoli tossici. La cosa che è sfuggita è che J. Paulson è uno specialista delle speculazioni al ribasso, le cosiddette “short”, che giocano contro i clienti. Quando la bolla è scoppiata il fondo Abacus di Paulson ha guadagnato molti milioni di dollari a danno degli investitori. Al tavolo erano anche sedute, Citigroup, con 300.000 dipendenti e circa 200.000 clienti, Merryl Lynch, Bearn Stearns Bank e Lehman Brothers. Come è finito il gioco?
 
Stava finendo male, dopo il crack Lehman se non fossero intervenuti congiuntamente il Tesoro americano e la FED come prestatore di ultima istanza, con il blocco della liquidità che si era determinato sul mercato interbancario, il sistema sarebbe collassato innescando una serie di insolvenze. Infatti, Citigroup per le perdite che ha avuto è stata salvata dal tesoro americano che ne ha acquistato il 40%, Bearn Stearns Bank è stata acquisita da JPMorgan e Merryl Lynch da Bank of America, la quale ha preso 45 miliardi di dollari di aiuti pubblici. Un’altra fetta importante dei 700 miliardi di dollari provenienti dal TARP (Troubled Asset Relief Program), il piano governativo di salvataggio di Wall Street da parte del Governo, è andata ad AIG (American International Group), una delle più importanti compagnie di assicurazioni. Ma, il motivo principale per cui ad AIG furono dati circa 173 miliardi di dollari è che quest’ultima doveva denaro ad altri soggetti. Tra questi c’era Goldman Sachs, la quale prese circa 13 miliardi di dollari per il rimborso di Credit Default Swap sottoscritti con l’AIG. Da evidenziare che AIG era stata una delle maggiori finanziatrici delle campagne elettorali americane, il primo beneficiario di questi fondi per il periodo 2003-2008 fu il senatore Obama.
 
Altri due soggetti importanti seduti al tavolo erano Fannie Mae e Freddie Mac, due banche, giganti del mercato dei mutui immobiliari americani, non solo quelli subprime ad alto rischio, ma anche quelli erogati alla middle class, ampiamente garantiti. Le due banche avevano un indebitamento di 60 dollari per ogni dollaro di capitale, un leverage, il rapporto tra mezzi propri e indebitamento, abbastanza elevato da fare invidia a molte società di Wall Street. Il risultato è che alla fine del 2008, con la crisi dei subprime, le due banche furono nazionalizzate per evitarne la bancarotta attraverso la FHFA, Federal Housing Finance Agency. La notizia di pochi giorni fa è che le due banche non potranno rimborsare i 180 miliardi di dollari spesi dallo stato federale per il loro salvataggio.
 
Last but not least, al tavolo verde di Wall Street vi erano anche le principali agenzie di rating: Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Le quali assegnano rating agli stati (rating sovrani), alle società e ai vari prodotti finanziari. Il problema è che queste società, malgrado offrano servizi di livello a più di due milioni di società, creano nel sistema finanziario una serie di conflitti d’interesse. Il primo di questi è che i principali investitori di fondi USA figurano tra i principali azionisti sia di Moody’s che di Standard & Poor’s. Ad esempio “l’oracolo di Omaha” Warren Buffet possiede attraverso la Berkshire Hathaway il 12,47% di Moody’s. Inoltre, Moody’s e Standard & Poor’s sono concorrenti sul mercato, la prima ha una quota del 40% e la seconda il 39%, ma la Capital World Investment ha il 12,38% della prima e il 12,38% della seconda, cioè possiede importanti partecipazioni azionarie di entrambe le agenzie. Quindi, utilizzano i loro stessi rating quando devono acquistare obbligazioni sul mercato. Inoltre, le agenzie di rating sono pagate dalle stesse società che devono valutare e spesso per coltivare i clienti assegnano giudizi troppo compiacenti. Si potrebbe obiettare il perché di tante polemiche e accanimento riguardo le agenzie di rating, d’altronde ci sono tanti altri conflitti d’interesse e le agenzie, comunque, offrono dei servizi di qualità. Il motivo è semplice: perché condizionano le decisioni d’investimento di milioni d’investitori di tutto il mondo, possono peggiorare ancora di più le crisi e chi le governa possiede un potere enorme. Per esempio, conoscendo i giudizi prima che vengono emessi, soprattutto sui debiti sovrani, un investitore può speculare e guadagnare molto sulle disgrazie altrui. Perché le autorità internazionali non riescono a regolamentarle visto che giocano un ruolo determinante nella formazione delle aspettative? Aldilà delle opinioni o pareri, il risultato finale è stato che al momento dello scoppio della bolla circa la metà dei titoli giudicati dalle agenzie di rating con tripla A, il massimo dell’affidabilità, erano titoli spazzatura. Inoltre, riguardo il caso Lehman Brothers le agenzie di rating hanno mantenuto l’investment grade fino alla data del fallimento. Infatti, solamente il giorno del ricorso al Chapter 11, la procedura di fallimento pilotato previsto dalla legge fallimentare statunitense, hanno dato la tripla C a Lehman Brothers. Né le banche avvertirono i propri clienti del probabile default. Pensare male è peccato, ma spesso ci si azzecca!
 
Per concludere, possiamo affermare che gli Stati Uniti, con la crisi del settore immobiliare dei mutui residenziali (subprime), hanno avuto un ruolo di primo piano nell’innescare la crisi finanziaria. Emerge in modo chiaro la responsabilità dei principali interpreti del sistema finanziario d’una, “possiamo dire”, sbagliata valutazione del rischio attraverso operazioni di cartolarizzazione. La finanza ha avuto un ruolo chiave nel trasferire poi, in un mercato globalizzato, la crisi verso l’economia reale mondiale. L’assunto del too big to fail, troppo grande per fallire, si è rivelato un boomerang e in alcuni casi un’uscita di sicurezza. Primo perché Lehman Brothers è fallita e gli altri colossi del credito avrebbero fatto la stessa fine se non fosse intervenuto il governo USA a evitare gli altri fallimenti. Secondo perché l’intervento del governo americano ha evitato, a parte il caso Lehman, l’eventualità della bancarotta che, comunque, permette al mercato di svolgere il suo lavoro, operando una selezione virtuosa, e agli operatori di valutare il rischio con più attenzione. Infatti, il too big to fail si è rivelato vincente non tanto, come si pensava per la solidità patrimoniale delle banche e la competenza dei manager, ma perché se fossero fallite sarebbe collassato l’intero sistema economico, motivo per il quale è stato necessario l’intervento governativo. La cosa paradossale è che, nonostante il management dei colossi del credito abbia operato in modo disastroso, i top manager nel biennio 2007-2008, secondo le stime di Equilar, hanno incassato stipendi e bonus per 450 milioni di dollari. Come per dire: fate quello che volete se poi le cose vanno male ci pensa lo Zio Sam con i soldi dei contribuenti. Aumentando, in modo pericoloso, oltre l’indebitamento anche l’azzardo morale.
 
E’ il sistema capitalistico che sta entrando in crisi? Forse, ma se i comportamenti sono quelli denunciati da Greg Smith, direttore esecutivo di Goldman Sachs sui derivati in azioni per l’Europa, il Middle East e l’Africa, che ha scelto di lasciare l’azienda accusandola di: “perpetuare una politica che antepone il profitto dell’impresa agli interessi dei clienti”, considerando questi come “polli da spennare” e di “usare le maggiori informazioni per vendere qualunque prodotto fosse conveniente per l’azienda anziché per il cliente”, fallirebbe qualsiasi sistema non solo quello capitalistico. Lo scambio dovrebbe essere vantaggioso per entrambe le controparti altrimenti nel medio-lungo periodo il sistema implode.
 
In sintesi, possiamo dire che alla crisi è stato creato l’ambiente giusto per svilupparsi, in quanto il governo americano, le autorità monetarie, le banche e gli intermediari finanziari hanno assecondato sia l’inflazione finanziaria creatasi sul mercato che alcune operazioni poco chiare, anziché contrastarle. Dopodiché, per evitare il collasso il governo Usa è intervenuto su ampie aree dell’economia per salvare il sistema, creando una commistione pericolosa tra Stato e mercato-Wall Street non capendo più alla fine chi è il controllore e chi il controllato. Ciò conferma che il mercato non è un qualcosa che sta su Marte, ma è influenzato dalle norme che lo governano e dagli operatori che vi operano e alla fine entrambi fanno la differenza.
 
 
Riccardo Bucella
Laureato in economia all’Università La Sapienza di Roma, ha lavorato presso varie società di consulenza in qualità di economista junior. Ha partecipato a numerose commissioni tecniche e a gruppi di studio sull’impiantistica sportiva e sul marketing sportivo. Attualmente si occupa di controllo di gestione presso l’Istituto per il Credito Sportivo.
 


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