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Guerra e mercato. Il dilemma supply-chain letto da Salzano (Simest)

Vuoi per evitare danni reputazionali, vuoi per avere garanzie istituzionali, la guerra in Ucraina costringe le imprese a rimodellare le supply-chain, verso una regionalizzazione della catena di valore. Un processo iniziato con la pandemia che ha anche dei rischi, scrive il presidente di Simest Pasquale Salzano

La guerra russa in Ucraina, proprio come la pandemia di Covid-19, è un altro “cigno nero” della storia. Un evento inatteso, almeno in parte, che segna un prima e un dopo. Vale anche per il mondo delle imprese italiane, costrette a navigare la crisi cercando di uscirne intatte. Per farlo è necessario creare un nuovo ecosistema che tenga conto del cambio di fase.

A scriverlo in un editoriale sull’ultimo numero di Longitude è Pasquale Salzano, che di imprese ed export si intende da tempo. Il presidente di Simest, già ambasciatore italiano in Qatar, è convinto che il perdurare delle turbolenze in Est-Europa avrà un impatto di lungo periodo sul mercato globale. A cominciare dalla tendenza delle aziende private a rilocalizzare e regionalizzare le supply-chain per evitare un’eccessiva esposizione. “Le opzioni possibili per le imprese che vogliono aumentare la decentralizzazione e le ridondanze sistemiche per scongiurare shock futuri spaziano dall’accorciamento delle catene di valore alla diversificazione dei fornitori fino all’integrazione verticale del ciclo di produzione”.

Non se ne discute da oggi. L’emergenza sanitaria globale ha già messo a nudo tanto la fragilità delle supply chain quanto la volatilità dei flussi commerciali. Tra gli esempi più recenti, il focolaio di Covid-19 che ha chiuso il terminal cinese di Yantian per un mese nel giugno dello scorso anno, accumulando nel porto decine di migliaia di container. Senza contare il clamoroso caso della Evergreen, la nave container che, incagliata in mezzo al canale di Suez, ha messo in stand-by i traffici globali.

La guerra però aggiunge un elemento alla crisi, scrive Salzano. Le imprese che operano in settori critici come il biomedicale, le batterie o i microchip saranno sempre più spinte dai rispettivi governi a “scegliere un luogo di produzione non sulla base del costo, ma sulla base di una partnership strategica con il governo (di destinazione, ndr) che garantisca la sicurezza dei rifornimenti”. L’esatto contrario di quel che stanno sperimentando le imprese occidentali in Russia, costrette a lasciare il mercato non solo per evitare un danno reputazionale ma anche e soprattutto per la totale incertezza normativa dovuta alla guerra.

Cambiare modello di business e di gestione delle supply chain può avere effetti positivi e immediati. Ad esempio, ricorda Salzano, “la riduzione dell’interdipendenza internazionale, e di conseguenza l’alleviamento dei danni collaterali nel caso in cui sanzioni internazionali colpiscano un Paese collegato alla supply chain di un’azienda”. Di più: “Un effetto positivo indiretto risulterebbe in una catena di produzione più eco-friendly e socialmente apprezzabile, dal momento che richiederebbe un trasporto inferiore e un maggiore impiego per le comunità locali”.

Ma, è inevitabile, ci sono anche effetti indesiderati. “Allocare le strutture di produzione tenendo conto di fattori diversi dall’efficienza dei costi è una spesa che le aziende potrebbero non essere pronti a sobbarcarsi, tentate dal trasferire il peso economico sul consumatore o il governo”. Di qui l’esigenza di un bilanciamento di interessi che tuteli il mercato e la sicurezza limitando i danni.

Tanto più in Italia, un Paese “fortemente inserito nelle catene del valore globali”. I dati lo dimostrano: a fronte del primo “cigno nero”, ricorda il presidente di Simest, cioè la pandemia, le imprese italiane non solo hanno sopravvissuto, ma hanno reagito, con export che ha toccato il record di 516 miliardi di euro nel 2021, più del 30% del Pil. Per mantenere la competitività mentre soffiano i venti di guerra in Europa c’è bisogno però di un sostegno istituzionale.

È questa la missione, fra gli altri, di Simest, che grazie al decreto Ucraina riattiverà la linea patrimonializzazione del Fondo 394 alle imprese italiane che esportano in Russia, Ucraina e Bielorussia. La nuova disciplina nel decreto prevede una deroga relativamente alla quota di contributo a fondo perduto, con un aumento della percentuale di cofinanziamento a fondo perduto dal 10% al 40%. A questa si aggiunge la sospensione fino a 12 mesi del saldo della quota capitale e degli interessi delle rate in scadenza nel 2022 per i finanziamenti concessi dal Fondo 394.


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