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La preside e la sentenza. Il cine-racconto di Ciccotti

Nella “domenica della adultera” un cine-racconto tra cronaca e vicenda neotestamentaria. L’autore è lo storico del cinema, accademico e preside di un polo liceale, Eusebio Ciccotti

La donna, a loro giudizio adultera, stava nel cortile della scuola davanti a un gruppo di ragazze e ragazzi. Tutti schierati. Dai 16 ai 18 anni. Qualcuno pure di 19 e 20 anni. Gli ultra-diciottenni, pare fossero ripetenti o “esterni”. Chi masticava una gomma; chi aveva una cicca rollata all’angolo della bocca a bilanciare l’acne; chi le labbra saldate da un ghigno sotto narici allargate; chi la bocca semiaperta e un po’ di peluria nera a denotare l’adultità in arrivo; chi rossetto acceso sulle labbra e nero intorno agli occhi. Tutti guardavano la preside con sarcasmo, beffa, senso di scherno. Ella indossava uno dei suoi abiti sobri ed eleganti a un tempo, come usava ogni giorno.

I volti degli adolescenti e degli ex adolescenti, in quell’ora dopo le 13.00, quando il sole si nascondeva dietro un capannone e nel cortile calava già l’ombra, avevano linee irregolari, lividi avvallamenti nelle guance emaciate, oppure strani rigonfiamenti lucidi sui colli, o sotto gli zigomi, alla Grosz. Ognuno serrava in mano qualcosa, ma il regista aveva tenuto l’inquadratura delle mani in campo medio e lo spettatore non capiva cosa tenessero dentro quei pugni. Si indovinava qualcosa di duro.

La donna appariva più bella e più serena del solito, ora che il sole di sguincio, sguisciando tra due palazzoni posti quasi a cerniera, costruiti alle spalle della antica scuola, raggiungeva solo una striscia di cortile. Un fascetto di raggi s’era appoggiato tra i capelli castani della donna e il colletto bianco della camicia, chiamato a guarnire un cardigan blu scuro. Intanto l’ombra copriva, ora, totalmente, quel plotone di ragazzi che si era autoconvocato in autogestione e stava per emettere la sentenza.

La preside era colpevole di aver amato, pare, uno di loro. Come era potuto succedere? Senza che lo sapessero tutti? Ognuno avrebbe dovuto seguire questa “storia” tramite filmato. O almeno in chat. Non avevano accettato di esser stati esclusi dalla diretta, in tempi in cui tutti ci vogliamo più bene di quanto si amassero, tanti anni or sono, i nostri nonni: ora siamo “grandi fratelli”.

L’impazienza aumentava, le posture cambiavano di poco, le mani strizzavano nei pugni l’ “it”, l’oggetto. Pronto per esser scagliato. La donna taceva. Era stata convocata per “spiegare” quella storia privata, ma ora, grazie al “quarto potere”, alla stampa modello “Inquirer” wellesiano, divenuta pubblica. Era lì per “incontrare” gli studenti; per difendere la sua posizione di “pedagoga”. Ma niente. Taceva. Ritta, con le spalle al muro della scuola. Un muro con sull’orlo tre cocci aguzzi di bottiglia.

Il regista inquadrava la donna a figura intera, con inclinazione basso-alto di 15 gradi. Il suo modo di rimanere eretta e immobile, con grazia, e quel colletto bianco della camicetta, ricordavano Edna Purviance, mentre esce dal Charity Hospital nell’incipit di The Kid, di Charlie Chaplin, e non sa dove andare. Non ha nessuno che la aiuti. Non una casa. Ha con sé solo, come recita l’inter-titolo, “il frutto della colpa”.

La preside stava. Davanti al plotone, con il frutto della colpa, la sua orribile azione, spalmata per giorni su quotidiani e siti. Ella era stata accusata di aver commesso una “hollywoodiata” anni Venti. Ossia, sedurre un povero innocente ragazzo. Forse qualche adulto, invidios* verso la donna, aveva alimentato la presunta “fiamma del peccato” della storia, puntando sul sicuro guadagno assicurativo.

A semicerchio, a sette metri, quelle e quelli, con il pugno chiuso lungo il fianco, e lo sguardo fisso, senza luce nelle pupille. La fissavano. Aspettavano che il primo lanciasse.
Tutte e tutti avevano una buona ragione per scagliare quello che serravano nel pugno. Una doveva vendicarsi di quando le aveva detto di non venire a scuola con un décolléte da adulta; un’altra “richiamata” poiché fumava nel cortile; una terza perché, a suo dire, la preside non l’aveva difesa da un quattro “immeritato” in matematica; uno rimproverato dopo un lungo bacio alla sua ragazza durante la ricreazione (“appunto si chiama ricrea-azione” si difese con nonchalance); un altro perché si era sentito dire che l’autogestione “è un modo per non fare lezione”; un altro ancora, perché gli aveva sconsigliato di rientrare a casa, dai locali, alle sei del mattino, e, magari, studiare di più, visto che rischiava l’ammissione agli esami di maturità.
Tutte buone ragioni per vendicarsi. E, dopo le danze, l’occasione era arrivata su un vassoio. Bisognava solo metterci dentro la testa decollata della presunta adultera.

La sentenza fu emessa. Colpevole. I pugni si allargarono. Dalle mani vennero lanciate lettere e parole che s’infissero sul muro dietro la preside. Le lettere formarono un nome e un cognome; le parole delle frasi sarcastiche, fortemente offensive.

Nel cortile arrivò il suono ovattato della campanella. Tutti a casa. Ognuno con il volto sorridente e felice sul cellulare. Chi verso lo scooterone, chi verso l’auto pagata da paparino, chi alla fermata del bus, chi a quella della metro. La preside rimase sola nel cortile. Non era più in piedi. Sul muro la sentenza, non firmata.
Un film strano, privo dei titoli di coda.

(Riferimenti a fatti e persone del mondo reale sono del tutto casuali)



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