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Bucha e negazionismo. Quattrociocchi spiega il cortocircuito mediatico

Bucha e negazionismo. Quattrociocchi spiega il cortocircuito mediatico

Da una parte la propaganda (filo)russa, dall’altra un’infosfera occidentale dove può attecchire. Dietro a coloro che negano i massacri in Ucraina, così come avvenne col Covid, c’è anche la lotta alle fake news. Walter Quattrociocchi, professore della Sapienza di Roma e a capo del Center of Data Science and Complexity for Society, spiega il nesso tra social e complottismo e sviscera il ruolo del giornalismo occidentale

Gli orrori di Bucha hanno gettato una luce ancora più crudele sulle narrative filorusse, spesso figlie della propaganda del Cremlino, e su coloro che si ostinano a propagarle, in Italia come altrove. Al racconto della violenza russa, attestata dalle prove – testimonianze dirette, immagini da terra e satellitari, video e metadati – questi hanno contrapposto dubbi, richieste di “verifiche indipendenti” e contro-narrative dal sapore complottista.

Per analizzare il fenomeno occorre fare diversi passi indietro. Così Walter Quattrociocchi, studioso di disinformazione e società, professore della Sapienza di Roma e a capo del Center of Data Science and Complexity for Society. Secondo cui queste mistificazioni della realtà possono attecchire grazie ai profondi cambiamenti nella sfera mediatica degli ultimi anni, catalizzati dai social media e mal gestiti da chi dell’informazione ne fa un mestiere.

Raggiunto da Formiche.net, l’esperto ha spiegato che da quando ha preso piede il concetto di “fake news” e della necessità di contrastarle, “si è cercato di condurre una battaglia di informazione binaria. Il male contro il bene, il pensiero uffizio contro quello eretico, dettami che non trovano spazio nel mondo globalizzato”.

Il trend è stato rinforzato dalla struttura delle piattaforme social e da come il mondo dell’informazione si è adattato ad esse: un modello di business che premia la semplificazione estrema, l’immediatezza – che lui definisce “bulimia dell’informazione” –, la spettacolarizzazione. Il risultato finale, necessariamente, è la polarizzazione: posizioni superficiali e contrapposte, a beneficio dell’intrattenimento, ma incompatibili con una lettura veritiera della realtà.

“Abbiamo sguazzato in questa dialettica fino al Covid, che ci ha assestato un colpo clamoroso”, continua l’esperto, che è anche tra i firmatari di diversi studi sull’infodemia nel periodo pandemico, anche in collaborazione con l’Oms, apparsi su Nature. Il problema riscontrato dal suo team non era l’informazione in bianco o nero, ma la sua sovrabbondanza: l’infodemia, ha spiegato, non è altro che “la reazione dell’essere umano a un sistema informativo molto rumoroso”.

Un clima del genere porta il fruitore al disorientamento, quindi alla ricerca di appigli ideologici – il cosiddetto confirmation bias. Ma l’infosfera alimentata dai social è pensata per intrattenere e non informare. Il contesto ideale per combattere una guerra informativa. Per questo certe reazioni alla guerra in Ucraina ne ricordano altre riguardo la pandemia: negazione delle prove, sfiducia nei media, controinformazione.

“C’è chi sostiene che i morti di Bucha non esistono. A furia di stressare il dibattito sull’attendibilità delle fonti e le fake news si è minata la fiducia nel processo. Tutto può essere messo in discussione, anche la testimonianza diretta, al punto che anche davanti a dati provati ed empirici uno si sente legittimato a dire: ‘mi avete preso per i fondelli finora, quindi perché stavolta dovrebbe essere diverso?’”.

Questo crea ciò che Quattrociocchi definisce “un cortocircuito informativo. Oggi il dibattito pubblico è surreale perché ognuno ha le sue prove e può negare la realtà”. Terreno fertilissimo per far attecchire le spiegazioni alternative. “Il complottismo è sempre esistito e la narrazione del Cremlino ci fa l’occhiolino, giocando sull’antagonismo all’establishment mainstream capitalista”: del resto non è un caso che le teorie del complotto portino sempre a un fantomatico Nuovo ordine mondiale che dirige il corso della globalizzazione, a sua volta vera fonte dei cambiamenti mediatici e sociali.

Così il linguaggio politico e quello giornalistico si sono adeguati alle logiche di questa nuova infosfera. Salvo poi criticarla quando la gente nega Bucha, chiosa l’esperto. Come se ne esce? “Quella che viene chiamata media literacy non è diversa dalla human literacy: è comunque l’interazione tra l’essere umano e il sistema informativo che lo circonda. Dunque serve ripartire dalla ricostruzione della fiducia nei media, cosa che implica una pesante revisione del modello di business del giornalismo” – anche se “mettersi in discussione è un esercizio che non tutti riescono a fare”.



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