Intervista al professor Giuseppe Gabusi (UniTo): le aziende cinesi tentennano, Pechino non è pronta al decoupling occidentale. Per Xi il migliore scenario è una tregua immediata, la guerra aumenta il pericolo nel Pacifico. Taiwan? Vincerà lo status quo, per ora
Petrolio, microchip, mercati finanziari. L’alleanza con la Russia “solida come una roccia” rivendicata da Pechino si infrange sulla realpolitik dell’industria cinese. Al sostegno formale alla causa russa in Ucraina fa da controcanto una prudenza sostanziale, dettata dalle sanzioni occidentali e dal rischio di un allargamento del conflitto. Per Giuseppe Gabusi, docente di Economia politica internazionale e dell’Asia Orientale all’Università di Torino e presso l’osservatorio TOChina, Xi Jinping ha in mano una matassa difficile da sbrogliare.
Le aziende cinesi tentennano. L’alleanza tra Mosca e Pechino è meno solida del previsto.
È la riprova, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia importante per la Cina rimanere agganciata all’Occidente. Nel breve periodo non esiste niente che possa sostituire i mercati e gli investimenti occidentali.
Quanto a lungo può rimanere in equilibrio?
Più la guerra si protrae, più diventa difficile coniugare la fedeltà politica alla Russia in chiave antiamericana e la necessità di tenere aperti i canali commerciali e finanziari. C’è un tentativo in corso di diversificare i mercati e la valuta di scambio, ma non è ancora sufficiente per liberarsi dalla predominanza del dollaro.
Qual è lo scenario ideale per Pechino?
La Cina ha tutto l’interesse a una tregua e se possibile a una risoluzione del conflitto. L’invasione russa dell’Ucraina crea non pochi imbarazzi: viola i principi di sovranità e integrità territoriale, cardini della politica estera cinese dagli anni ’50. Man mano che la guerra diventa guerra di conquista e punta a smembrare il territorio ucraino difendere la vicinanza con la Russia è più complicato.
La Cina vuole la tregua ma non media davvero per ottenerla. Perché?
Perché un mediatore credibile deve godere della fiducia dell’Occidente, e questa fiducia oggi non c’è. Lo spazio per la mediazione si riduce a interventi mirati, non risolutivi. Non a caso la Turchia di Erdogan è considerata più efficace. La vicinanza geografica alla Russia, l’interesse alla stabilità del Mar Nero e del Caucaso e l’appartenenza alla Nato sono un mix convincente.
Biden ha detto e ribadito che Putin “non può rimanere al potere”. Un campanello d’allarme per la Città Proibita?
Quella frase ha suscitato imbarazzo nelle cancellerie europee e timori in quelle asiatiche. A Pechino si fa strada l’idea che, nei disegni americani, la Cina debba un giorno seguire lo stesso destino di altri Paesi non democratici in cui è stato imposto un regime-change.
Oggi Kiev, domani Taiwan. È così?
Sono scenari molto diversi anche se non manca qualche compatibilità. La reazione occidentale, soprattutto degli Stati Uniti, ha mandato un chiaro segnale a Pechino, che in questo momento sembra interessata a mantenere lo status quo.
Xi Jinping può rinunciare alla questione Taiwan mentre si avvicina il Congresso del partito?
Credo di no. Lui stesso ha detto più volte che non può rimanere irrisolta, ne fa una questione di legacy politica. Anche per questo la Cina non ha interesse a un prolungamento della guerra in Ucraina. Invece che distrarre gli Stati Uniti, come qualcuno sostiene, li sta convincendo a rafforzare il pressing diplomatico nell’Asia Pacifico, come dimostra il riarmo del Giappone e la prospettiva di una “globalizzazione” della Nato.