Si è molto parlato non solo in sede parlamentare (Atto Camera dei Deputati 1359 del 2013) del disegno di legge relativo alle procedure da seguire per le Riforme istituzionali.
Non si tratta di una questione astrattamente teorica, perché siamo in presenza di un punto nevralgico della stessa idea di Costituzione, e quindi delle modifiche che si possono apportare alla Costituzione senza “violentarla”.
È stato infatti Beppe Grillo a parlare di “stupro” della Costituzione vigente, così come sono stati i parlamentari del M5S a subordinare l’ostruzionismo relativo al decreto legge denominato “del fare” proprio a questo disegno costituzionale.
Il risultato conclusivo dell’ostruzionismo è consistito nell’iniziare la discussione generale alla Camera nei primi di agosto, sapendo che il vigente regolamento consente di contingentare i tempi per la conclusione parlamentare alla ripresa di settembre.
Si tratta sostanzialmente di una questione molto rilevante, che concerne il fatto stesso delle revisioni della Costituzione vigente.
Ma – a differenza di quel che ritengono alcuni colleghi costituzionalisti – non penso che il ddl in questione configuri in alcun modo una violenza della Costituzione in atto.
Sono infatti sostenitore di una cultura costituzionale che ritiene sempre possibile una riforma della Costituzione, purché vi concorra il necessario consenso popolare.
Il disegno di legge in oggetto prevede infatti espressamente che si possa far ricorso al referendum popolare anche se le riforme sono state approvate da ciascuna camera a maggioranza dei 2/3.
E questa previsione modifica proprio l’art. 138 della Costituzione.
Ritengo infatti che all’origine di quella norma vi fosse una sorta di patto costituzionale tra democristiani e comunisti, che finirono proprio con l’escludere il ricorso al referendum popolare qualora i due grandi partiti avessero trovato un’intesa.
Sta proprio qui il punto decisivo della questione.
Come tutti sappiamo, democristiani e comunisti non ci sono più sì che – a mio giudizio – quella regola costituzionale, che è di fatto antireferendaria, finisce proprio con il poter essere sostituita da una nuova formulazione dell’art.138 che rende proprio il ricorso al referendum popolare sempre possibile, anche in presenza di riforme costituzionali approvate a maggioranza di 2/3.
Da questo punto di vista, pertanto, il ddl in atto non solo non configura una violenza della Costituzione ma – al contrario – predispone una eventualità evidentemente più popolare di quella originaria della Costituzione medesima.
Per quel che concerne la questione delle due deliberazioni necessarie da parte di ciascuna delle due camere perché una riforma costituzionale abbia corso, mi limito a rilevare che questa doppia deliberazione è formalmente prevista dal ddl in oggetto.
Si prevede soltanto che l’intervallo tra l’una e l’altra deliberazione sia sì inferiore ai 3 mesi ora previsti, ma avvenga comunque in un arco di tempo non inferiore ai 45 giorni che devono intercorrere tra una deliberazione e l’altra.
Non ritengo che questa sia in alcun modo una “violenza”, né tantomeno uno “stupro” costituzionale.
Il governo Letta si era infatti presentato al consenso parlamentare proprio prevedendo questa procedura, e aveva affermato che le riforme costituzionali fanno parte essenziale della strategia stessa di risanamento economico.
Si poteva e si può essere contrari al governo Letta; si poteva e si può ritenere che lo “stato di necessità” debba durare molto meno dei 18 mesi necessari per produrre riforme costituzionali.
La questione, dunque, è una questione di governo e non una questione di procedura costituzionale: su questa il Parlamento è chiamato a deliberare, e su questa è auspicabile che vorrà deliberare in modo coerente al voto che ha dato vita al governo Letta.