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La globalizzazione non sta finendo. Parola di Zecchini

L’equilibrio tra le forze globalizzanti e quelle deglobalizzanti è divenuto meno stabile che nel passato col risultato che si continuerà ad avere un alternarsi di fasi dalla più intensa interconnessione con fasi a minore intensità. Nondimeno, nessun Paese ha manifestato la preferenza per l’isolamento; piuttosto, quelli sotto blocco cercano strenuamente di uscirne

Il diffondersi delle sanzioni economiche e gli sconvolgimenti delle relazioni commerciali mondiali a seguito della guerra in Ucraina hanno rafforzato in molti esperti la convinzione che la tendenza alla deglobalizzazione delle attività d’impresa sia inarrestabile e destinata a proseguire per anni. Dalla crisi finanziaria del 2008-2009, proseguendo con quella debitoria del 2012, seguita dallo shock della pandemia e da quello del conflitto armato nell’Est europeo si sono andati erodendo i pilastri della globalizzazione. Questa è fondata sulla libertà degli scambi di ogni tipo tra Paesi, sulla circolazione delle persone tra stati e sulla capacità dell’impresa di programmare e gestire efficientemente le sue attività su uno scacchiere multinazionale. Lo sviluppo delle filiere internazionali del valore e la segmentazione transnazionale della produzione sono alcuni dei risultati più importanti di questo fenomeno.

La sua erosione è uno sviluppo avviatosi nel 2008, che si coglie a prima vista nel rallentamento degli scambi commerciali internazionali, scesi dal 2009 al 2018 a un tasso di crescita annuo del 3,5% rispetto a oltre il 7% dal 2000 al 2008. L’intensità di importazioni di prodotti intermedi nel valore della produzione mondiale ha smesso di crescere da quegli anni. Anche negli investimenti diretti e di portafoglio si riscontra un rallentamento, e lo si ritrova altresì nei flussi migratori dal 2010. Le contese commerciali, segnatamente tra gli Usa e i suoi più competitivi partner commerciali (Cina, Messico, Ue), il protezionismo strisciante in tempi di crisi economica generale o settoriale (ad esempio, acciaio, alluminio, pannelli solari, aeromobili), la competizione tra sistemi politici cosiddetti “democratici” e quelli “autoritari” e da ultimo le sfide egemoniche tra le maggiori potenze hanno fornito la motivazione per introdurre varie barriere ai flussi e agli influssi (culturali o politici) tra Paesi. Altro segno di erosione è visibile nella sfiducia degli Usa verso la gestione da parte della Wto dell’ordine commerciale internazionale e verso la Who durante l’ultima crisi sanitaria.

In un’epoca di globalizzazione ad ampio spettro le sanzioni economiche hanno un’efficacia superiore a quelle applicabili in un’economia mondiale segmentata tra Paesi che erigono barriere protettive verso l’esterno, come nel periodo tra le due guerre mondiali. È quindi naturale che nei primi due decenni di questo secolo si sia fatto crescente ricorso all’arma delle sanzioni per perseguire obiettivi tanto economici, quanto politici, o sociali, o di natura militare. Lo si è visto nel caso delle sanzioni all’Iran, di quelle al Venezuela e in misura blanda alla Russia nel 2014 per l’invasione della Crimea. Le sanzioni sono state viste come un’arma di guerra economica, che fa da sostituto ad operazioni militari, che avrebbero richiesto grande dispendio di risorse e vite umane per il Paese che le impone.

Queste evidenze storiche e statistiche, tuttavia, non sono sufficienti per ritenere che la deglobalizzazione sarà la nota dominante dell’economia mondiale nel prossimo decennio. Una lettura attenta dei dati e delle ragioni delle decisioni dei Paesi indica piuttosto un’evoluzione della globalizzazione verso forme “4.0”, che rispondono, come avvenuto nel secolo passato, ai mutamenti nel contesto mondiale inteso nei suoi multiformi aspetti, ossia politico, tecnologico, energetico, economico, sociale, culturale e delle istituzioni internazionali. Non è una novità che la globalizzazione sia avanzata anche quando il mondo era diviso in blocchi contrapposti tra l’Occidente e l’Unione Sovietica, con il Terzo Mondo non allineato, oppure mostrava divergenze di interessi tra americani ed europei, ad esempio negli eventi che portarono alla crisi del dollaro del 1970-1972 e alla fine del dollar-exchange standard, che era stato in precedenza il fulcro della ricostruzione ed espansione dell’economia europea in quanto assecondava la liberalizzazione dei commerci.

Molte delle prove di una ritirata dei Paesi dalla globalizzazione derivano da una nozione del fenomeno tratta dall’economia di sessanta anni fa quando la interconnessione tra economie nazionali avveniva attraverso il commercio, le migrazioni e i flussi di capitali. Nell’attuale secolo l’interconnessione o interdipendenza tra Paesi ha assunto caratteri aggiuntivi e differenti dal passato. Non avviene soltanto seguendo i canali tradizionali, ma sfrutta le tecnologie digitali per la trasmissione rapida di informazioni, dati, innovazioni e idee, si è estesa alle attività dei servizi, coinvolge un numero molto più grande di imprese, offrendo anche alle piccole un accesso a mercati esteri prima irraggiungibili, fa leva molto più che nel passato sulla migrazione dei cervelli e quella a scopi di istruzione avanzata, e vede nella cooperazione tra ricercatori di differente nazionalità la molla per il continuo avanzamento del progresso scientifico e tecnologico.

Internet e la disponibilità di connessioni a banda ultralarga si sono estesi in misura tale da legare in una fitta rete quasi l’intero mondo, nonostante gli ostacoli della censura nei Paesi governati da regimi autoritari e dei blocchi economici. Le grandi piattaforme digitali di mercato delle multinazionali hanno allargato l’acceso ai mercati mondiali in misura mai vista nella storia umana. Le connessioni digitali svolgono un ruolo di sostituto dei trasferimenti fisici delle persone per incontri o riunioni di lavoro, come si è visto nella recente pandemia. Il lavoro a distanza supera le barriere territoriali per fornire servizi da Paesi stranieri. La finanza digitale (fintech) ha aggirato i limiti delle istituzioni finanziarie tradizionali per offrire il risparmio privato a una platea molto più ampia di imprenditori altrimenti esclusi dal finanziamento. Le monete digitali superano i limiti della fiducia nelle monete di Stato per consentire perfino agli abitanti di sperduti villaggi siberiani di ottenere potere di acquisto spendibile in gran parte del mondo senza movimentare i rubli. Le reti elettriche, petrolifere ed idriche transnazionali non sono venute meno nemmeno tra Paesi in piena ostilità e sono rimpiazzabili con altri mezzi e con altri Paesi in tempi non lunghi. La dematerializzazione dei prodotti, come i software, i dati, le informazioni e i brevetti, ha alimentato scambi che possono sfuggire a restrizioni.

Queste evidenze mostrano che la globalizzazione è entrata profondamente, oltre che nelle economie, nella cultura sociale e nello spirito dei popoli al punto che privarsene è visto come un grave danno per le possibilità di sviluppo. Il blocco economico-finanziario è divenuto molto costoso per il Paese a cui è imposto, benché sia sempre aggirabile. L’Iran, il Venezuela, Cuba e la Corea del Nord sono a lungo sotto embargo dell’Occidente, il loro sviluppo economico e sociale è divenuto molto lento, il tenore di vita è crollato a livelli bassi, ma continuano a sostenersi e a condurre le normali attività di un Paese accedendo alle reti globali. Queste in realtà sono sempre permeabili alle restrizioni fin quando non sarà possibile rendere ermetica la loro impermeabilità, risultato sempre più arduo da raggiungere.

Quelle forme di deglobalizzazione che si sono viste nel decennio scorso non intaccano la globalizzazione, ma ne denunciano l’evoluzione verso nuovi assetti. La ragione principale è che nessun Paese vi può rinunciare, pena essere condannato al sottosviluppo. La globalizzazione ha, infatti, permesso a strati sempre più larghi della popolazione di tutti i Paesi di accedere a beni, essenziali e non, a prezzi più bassi, frenare le spinte all’inflazione nelle economie avanzate, accrescere la competitività delle imprese nelle catene del valore per effetto della specializzazione in segmenti della filiera e dell’aumento della scala di produzione, ha costretto a migliorare l’ efficienza e fare ricerca ed innovazione per fronteggiare la maggiore concorrenza o per soddisfare la domanda particolare, ha ampliato la varietà di prodotti e servizi, e soprattutto ha permesso alle economie emergenti di trarsi fuori dal sottosviluppo. Cina, Corea, Asia sud-orientale, Singapore, Messico sono esempi su come cogliere le opportunità di un mercato globalizzato e regolato da un ordine internazionale per costruire la propria prosperità.

Naturalmente il mercato globalizzato ha comportato anche risvolti negativi per le economie avanzate, che hanno dovuto ristrutturarsi e fronteggiare i costi sociali dei lavoratori rimasti privi di occupazione e difficili da riconvertire verso altre mansioni. Questa non è tuttavia la motivazione principale delle barriere che si sono erette recentemente. Una conseguenza ancor più importante e gravida di rischi è la notevole dipendenza da singoli Paesi fornitori di materie prime, energia, o prodotti intermedi

Le sanzioni e l’embargo verso alcuni Paesi non rompono la globalizzazione, ma la modificano nel senso che determinano una deviazione degli scambi o dei circuiti finanziari o di quelli migratori. Se l’Occidente blocca le esportazioni di petrolio della Russia, questo Paese può venderlo ad altri che non partecipano al blocco, benché al costo di un prezzo di favore, e questi ridurranno le importazioni dai precedenti fornitori. Lo stesso può avvenire con i chips: quelli oggetto di embargo possono essere sostituiti da quelli prodotti altrove, anche se meno performanti. Se un canale migratorio si blocca, si può ricorrere a un altro.

I nuovi fattori che improntano gli attuali processi di globalizzazione riguardano la tendenza dei Paesi occidentali a raggiungere l’autosufficienza nelle produzioni essenziali, la loro diversificazione delle fonti di approvvigionamento per i prodotti indisponibili all’interno, l’accorciamento delle filiere produttive, o di quelle del valore, e l’assottigliarsi delle convenienze di costo nel produrre nelle economie emergenti. In queste ultime i costi del lavoro si sono elevati a livelli meno distanti da quelli occidentali, le normative del lavoro ed ambientali sono divenute più stringenti, e i trasporti internazionali sono rincarati in misura consistente.

Queste esigenze guidano la transizione dalla globalizzazione tradizionale dei decenni precedenti verso una nuova, che si può definire “a più livelli e per settori”. Il primo livello è quello costituito da gruppi di Paesi legati da unioni doganali o accordi di libero scambio, come l’Ue, l’Usmca e in futuro l’Asean. Non si può parlare di regionalizzazione dei commerci entro blocchi di Paesi,  perché sono aperti anche verso il resto del mondo. Un altro livello è il risultato degli accordi tra grandi aree economiche, come quelle indicate. Un livello è rappresentato dai circuiti che alimentano i flussi di capitali, i finanziamenti tra Paesi e gli investimenti diretti all’estero. Altri circuiti interessano le correnti migratorie, che permangono nonostante barriere di varia natura. Ancora, sul piano settoriale si incontrano libertà di investimento e di commerci in alcuni settori e restrizioni in altri. Nel campo dei dati, dei brevetti e delle invenzioni si assiste già a una circolazione su scala quasi mondiale. Tende altresì a estendersi il carattere globale di alcune norme approvate da consessi di Paesi, quale l’accordo di Parigi sul contenimento delle emissioni di gas inquinanti.

Il nuovo mondo globalizzato appare, quindi, più frastagliato di differenze rispetto al precedente, ma pur sempre un mondo aperto alle connessioni su più piani e attraverso più canali, non un mondo chiuso da barriere invalicabili. L’equilibrio tra le forze globalizzanti e quelle deglobalizzanti è divenuto meno stabile che nel passato col risultato che si continuerà ad avere un alternarsi di fasi dalla più intensa interconnessione con fasi a minore intensità. Nondimeno, nessun Paese ha manifestato la preferenza per l’isolamento; piuttosto, quelli sotto blocco cercano strenuamente di uscirne.

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