Skip to main content

A cosa servono i viaggi di congressisti e funzionari Usa a Taiwan

Senatori, deputati ed ex alti funzionari statunitensi visitano costantemente Taiwan creando una deterrenza politica davanti alle ambizioni di Pechino

Un gruppo di sei legislatori statunitensi è atterrato a Taiwan giovedì per una visita precedentemente non annunciata, in una dimostrazione di sostegno all’isola di fronte alla pressione cinese. Tra loro, il presidente della Commissione per le Relazioni estere del Senato, il democratico Bob Menendez, e il legislatore repubblicano senior per i temi di politica estera, Lindsay Graham. “Spesso mi chiedono cosa gli Usa potrebbero fare per Taiwan: tutte le opzioni sono sul tavolo”, ha detto Graham.

Arrivati con un aereo marchiato “United States Of America” all’aeroporto Songshan di Taipei, sono stati accolti dal ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu, e hanno in programma un incontro con la presidente Tsai Ing-wen. Taiwan accoglie gli americani anche perché ha aumentato il suo livello di allerta, poiché teme che la Cina possa approfittare di un Occidente distratto per muoversi contro l’Isola.

È evidente che dietro a questo e ad altri viaggi ci sia una tattica: il flusso continuo di importanti personaggi della politica americana, inviati a pubblicamente e fisicamente sul posto, segna una presenza e serve come forma di deterrenza. Per Taiwan questo contatto continuo serve ad approfondire il proprio standing internazionale: un riconoscimento di fatto, la creazione di relazioni e rapporti che si rendono complicati da spezzare.

Per la Cina — che in questi giorni organizza manovre militari lungo lo stretto che divide l’isola dal mainland — è deplorevole, in quanto diventa una complicazione dei propri piani. La rivendicazione di sovranità di Pechino ha valore esistenziale. La Repubblica di Cina, l’altra Cina, non è solo il luogo in cui il governo nazionalista del Kuomindang —sconfitto dalla rivoluzione comunista nella Cina continentale — vi si rifugiò nel 1949. Taiwan è governata democraticamente. Rivendicarla come provincia ribelle, portarla sotto il controllo cinese, con la forza se necessario, significa per la narrazione della Repubblica popolare estirpare il seme della democrazia che ha attecchito nel giardino di casa; e farlo usando rivendicazioni su base storicamente legate al regime comunista è l’elemento ulteriore.

Taiwan è un simbolo, e altrettanto simboliche sono queste visite statunitensi. A inizio marzo, una delegazione di ex alti funzionari della difesa e della sicurezza degli Stati Uniti è volata a Taipei in un tour organizzato dall’amministrazione Biden, denunciato (come atto provocatorio) dalla Cina e avvenuto in un punto di frizione nel mezzo dell’invasione russa in Ucraina.

La delegazione in quel caso era guidata dall’ex presidente dello Stato Maggiore congiunto Mike Mullen, accompagnato da Meghan O’Sullivan, un’ ex vice consigliere per la Sicurezza nazionale sotto l’amministrazione Bush, e Michele Flournoy, un ex sottosegretario della Difesa sotto la presidenza Obama.

Mullen, un ammiraglio della Marina in pensione che ha servito come il più alto ufficiale militare degli Stati Uniti sotto George W. Bush e Barack Obama, guidava una delegazione che portava con sé tematiche di difesa e sicurezza. C’erano anche due ex direttori senior dell’ufficio “Asia” del Consiglio di sicurezza nazionale, Mike Green e Evan Medeiros. In quegli stessi giorni era arrivato a Formosa anche l’ex segretario di Stato americano Mike Pompeo, che però non era parte della delegazione ufficiale ma si muoveva come “privato cittadino” — anche se visto il ruolo che ha occupato fino a due anni fa, è difficile immaginarlo tale.

L’intento di queste visite è “dimostrare il nostro continuo e robusto sostegno a Taiwan”, spiegano con discrezione dagli Stati Uniti. La Cina descrive Taiwan come la questione più sensibile e importante nelle sue relazioni con Washington, e qualsiasi interazione di alto livello sconvolge Pechino. “La volontà del popolo cinese di difendere la sovranità e l’integrità territoriale del nostro paese è inamovibile: chiunque gli Stati Uniti mandino per mostrare sostegno a Taiwan è destinato a fallire”, disse tempo fa il ministero degli Esteri cinese per commentare una di queste visite.

Il numero di questi viaggi, la costanza e il valore delle figure coinvolte fa capire che l‘intento di Washington è quello di mettere persone (o meglio personalità) americane fisicamente a Taiwan in un modo simile con cui venivano impiegati durante la Guerra Fredda i piccoli dispiegamenti di forze militari “tripwire” in potenziali punti caldi. Servivano a scongiurare gli attacchi dell’URSS. Nel libro “Arms And Influence”, Thomas Schelling, uno dei teorici della deterrenza americana, spiega che quei piccoli gruppi di soldati americani in quegli hotspot avrebbero potuto far poco se non morire, ma era proprio la possibilità di una loro morte da evitare, perché quella garantiva che la cosa non sarebbe finita lì: e dunque scongiuravano azioni del nemico.

Schierare soldati americani a Taiwan in questo momento non è possibile (se non per piccoli missioni segrete di addestramento come quella dei Marines resa nota lo scorso anno), perché una tale decisione porterebbe a un escalation con Pechino. È possibile ottenere lo stesso effetto deterrente scambiando quei gruppetti di militari con una manciata di politici e funzionari governativi di alto profilo inviati in visita?

(Foto: Twitter, @iingwen)



×

Iscriviti alla newsletter