Sostenere il popolo contro un aggressore è un conto, sostenere le autorità statali e le forze armate può invece essere il prodotto di un pensiero che non è solo in Kirill evidentemente e che rende naturali tendenze nazionaliste anche in chi lo accusa di eresia. La Chiesa infatti dovrebbe essere in Ucraina, non dell’Ucraina… La riflessione di Riccardo Cristiano
Quattrocento preti ortodossi ucraini, sotto la giurisdizione del patriarcato ortodosso di Mosca, si sono appellati al Consiglio dei Primati delle Antiche Chiese Orientali perché dichiarino il patriarca di Mosca Kirill eretico.
L’iniziativa appare eclatante e lo è, ma è anche evidentemente fondata. Dal giorno della sua elezione a patriarca Kirill predica la dottrina del “mondo russo”. Cosa vuol dire? Vuol dire che per lui la sua Chiesa è la Chiesa di tutto il mondo russo, al quale appartengono tutte le antiche tribù slave che si convertirono al cristianesimo nell’860 con Vladimiro il Grande e i loro discendenti. Di questa Chiesa fanno parte per Kirill tutti i russi, definizione che comprende dunque gli appartenenti a quei gruppi etnici slavi che abitano Russia, Bielorussia, Ucraina e Moldavia. Vi appartengono anche i russi emigrati all’estero e che rimangono russi per sempre. Dunque una Chiesa etnica che ha in Mosca la sua capitale, in Kiev il suo luogo battesimale, in Putin il suo leader e in Kirill il suo patriarca.
Ma la Chiesa ortodossa non è così, non può essere così. La Chiesa ortodossa, come quella cattolica, è in funzione del luogo dove vive l’assemblea dei fedeli, come da tradizione apostolica, non può essere etno-nazionale, cioè fondata sull’identità dei suoi membri. È questa una Chiesa che piomba nel filetismo, o etno-filetismo, cioè la predilezione di un gruppo etnico, definita ufficialmente e solennemente eresia dal Grande Concilio ortodosso del 1872. Perché una Chiesa etnica non sarebbe più la Chiesa di Gesù.
Il punto, affrontato e risolto già in questo concilio di tanto tempo fa, è stato già sollevato contro le idee di Kirill da ottocento teologi di tutto il mondo ortodosso che hanno riscontrato un rischio enorme ed evidente nella dottrina di Kirill. Questo rischio è una deriva verso il razzismo ecclesiale. È talmente evidente che questo sia il pericolo insito nella visione di “mondo russo”, da andare al di là del suo peso nella legittimazione della guerra d’Ucraina, che Kirill ha definito una guerra “metafisica”, cioè per il bene contro il male. Ma è ancor più grave del sostegno esplicito e più volte ribadito alla guerra e alle armi, non solo contro gli ucraini ma anche contro il nemico interno, come ha detto il patriarca Kirill solo domenica scorsa. Questo accade infatti per la visione di Chiesa etnica che il patriarca propone. È da qui che discendono altre scelte che i quattrocento sacerdoti fanno presenti. “Stiamo assistendo alle brutali azioni dell’esercito russo contro il popolo ucraino, approvate dal patriarca Kirill. Come sacerdoti della Chiesa e come semplici cristiani, siamo sempre stati e saremo sempre con il nostro popolo, con coloro che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Sosteniamo pienamente le autorità statali ucraine e le forze armate ucraine nella loro lotta contro l’aggressore”.
Queste ultime parole fanno capire che le malattie canoniche sono contagiose. Sostenere il popolo contro un aggressore è un conto, sostenere le autorità statali e le forze armate può invece essere il prodotto di un pensiero che non è solo in Kirill evidentemente e che rende naturali tendenze nazionaliste anche in chi lo accusa di eresia. La Chiesa infatti dovrebbe essere in Ucraina, non dell’Ucraina. È infatti il suo carattere universale che impedisce di esprimere pieno sostegno a qualsiasi governo e a qualsiasi esercito. Proprio per quanto detto prima: la Chiesa è in funzione del territorio per la sua visione evangelica, non può legarsi a governi.
Questo emergerà chiarissimamente questa sera, quando alla XIII stazione della Via Crucis una donna russa e una donna ucraina ponendosi insieme sotto la Croce diranno che la Chiesa è universale, che il dolore dell’una riconosce il dolore dell’altra, senza confini nazionali. Si può vedere prioritario il coraggio della donna russa, che così riconoscerà l’esistenza di quell’ucraina che Putin ha negato come tale, o quello della donna ucraina, che così dirà alla russa di accettarla come sorella. È un po’ quello che ha fatto ieri Francesco recandosi in un penitenziario di Civitavecchia per la tradizionale cerimonia della lavanda dei piedi. In un mondo nel quale tutti vogliamo essere giudici degli altri, giudici totali e inappellabili, Francesco va dai detenuti a riconoscerli come fratelli, non a condannarli. Contro il torpore del giustizialismo che echeggia nelle guerre che negano e condannano l’altro.