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La cambiale di Macron a Mélenchon per una Francia divisa. Scrive Malgieri

Il primo ministro potrà, ma è improbabile, essere un uomo di En Marche!, come, più realisticamente, il potere gestionale potrebbe finire nelle mani di qualcuno non inviso a Jean-Luc Mélenchon, il vero artefice della vittoria di Macron che con più d’un terzo dei suoi voti ne ha decretato la vittoria. Il commento di Gennaro Malgieri

Emmanuel Macron conquista la presidenza, ma si ritrova a governare una Francia profondamente divisa. Marine Le Pen, perde ma con successo: il suo 41% è il simbolo di un Paese che, unitamente agli astenuti (quasi un record), non si riconosce nell’ottimismo del “presidente dei ricchi” quando dice che darà battaglia alla collera e al disaccordo. Ne ha fatto già esperienza quando vide il presidente raggiungere la piazza del Louvre cinque anni fa a passo solenne e regale.

Sono stati cinque anni di impoverimento, paura, disincanto. Macron non potrà e certamente non vorrà ripetere la recente esperienza, ma sa che una nazione frammentata nella quale il tasso di angoscia nelle periferie è dominante, mentre nelle grandi città varie oligarchie si contendono il potere che il sistema della Quinta Repubblica mette a loro disposizione, sarà difficile da governare. Se poi quella metà dei francesi che ha perso le elezioni vorrà farsi valere, con modalità diverse, ma sostanzialmente simili a quelle dei gilet jaunes, allora il quinquennato appena apertosi dovrà far ricorso alle barriere sociali per arginare la rabbia della gente che non era sotto la Tour Eiffel ad acclamare il giovane presidente rieletto il quale aspira già a più ambiziosi traguardi: diventare il primo presidente degli Stati Uniti d’Europa. E a questo fine lavorerà trascurando le faccende domestiche alle quali delegherà qualche sodale fedele per il disbrigo degli “affari correnti” all’Eliseo.

Il primo ministro potrà, ma è improbabile, essere un uomo di En Marche!, come, più realisticamente, il potere gestionale potrebbe finire nelle mani di qualcuno non inviso a Jean-Luc Mélenchon, il vero artefice della vittoria di Macron che con più d’un terzo dei suoi voti ne ha decretato la vittoria.

Ora ha un bel dire l’Eletto (in tutti i sensi) che vorrà essere il presidente di tutti i francesi. È una boutade propagandistica. Egli sarà un presidente di centrosinistra al quale il leader di France Insoumise presenterà presto le cambiali da onorare. Senza i voti abbondanti dell’estrema sinistra rappresentata da quel populista di Mélenchon che prima di votarlo si è turato il naso, infatti, Macron non avrebbe potuto festeggiare, con il corteggio di giovani e giovanissimi, mano nella mano di Brigitte, il suo trionfo che se non è stato rotondo come cinque anni fa è pur sempre un risultato rilevante comunque sia maturato.

Nel suo discorsetto, apprezzato più per la brevità che per i contenuti, il presidente ci ha tenuto ad apparire altro da sé. Non il prodotto dell’establishment, non l’invenzione della grande finanza e del complesso industriale, non il vanitoso e perfino arrogante europeista che ha dimenticato i deboli per dare ai forti, ma un giovane statista dall’aria perfino sbarazzina che ha indossato, come ha detto qualcuno, i jeans sotto l’impeccabile giacca sartoriale quasi a mostrarsi alla “sua” Francia uomo del popolo, ma non del popolo, non dimentico tuttavia di chi lo ha voluto dopo la catastrofe abbattutasi sui Sarkozy, sui Juppé, sui Fillon, sui Valls, sugli Hollande, sulle Ségolène Royal e sulle Aubry; insomma su quella vecchia Francia politica travolta da eventi che non ha saputo riconoscere per tempo ed ha abbandonato il suo elettorato ad un destino denso di incertezze.

L’alta finanza l’ha presa per un braccio e, salvandola (forse) dal baratro, l’ha affidata ad un giovanotto scaltro e intelligente che ad essa è rimasto fedele, alla quale non ha torto un capello, inventandosi per essa addirittura una riforma delle pensioni e la contorta transizione ecologica gradita al capitalismo europeo piuttosto che ai sostenitori di un ambientalismo radicale che attendono rivolgimenti profondi.

Con una moderazione che agli esordi di quest’ultima campagna elettorale nessuno le riconosceva, Marine Le Pen perdente, ma non sconfitta come fu lei stessa nelle due precedenti occasioni ed il padre nel 2002, ha saputo convogliare su se stessa non i rancori ed i risentimenti della Francia profonda, ma la speranza di una società dinamica e giovane (molti i ragazzi che si sono recati alle urne per la prima o la seconda l’hanno votata) ottenendo un suffragio assai lusinghiero, mai sfiorato dalle destre nel dopoguerra. Il che vuol dire che un’anima antisistema, non riconducibile ad una sinistra sgangherata, che oltretutto si é persa tra France Insoumise ed i partiti moribondi della Quinta Repubblica, socialisti e para-gollisti in primis, esiste e può essere capitalizzata, giusto quel che sostiene Éric Zemmour il quale, nell’ennesimo appello all’unione delle destre, si prepara, non diversamente dalla Le Pen, alle legislative di giugno quando un grande raggruppamento, soprattutto nelle aree dimenticate ed affollate di collera e rabbia, come dice Macron, può ottenere un grande successo.

È il sistema elettorale che glielo permette: possono accedere ai locali ballottaggi tutti coloro che arrivano al 12,5%, perfino quattro candidati, e se Le Pen e Zemmour dovessero correre in parallelo, o adottare l’escamotage della desistenza nelle delle zone dove l’una o l’altro hanno maggiore possibilità di vittoria o almeno la probabilità di superare lo sbarramento, sarà uno spasso vedere i candidati di Macron e di Mélenchon o di qualche rottame del vecchio centrismo e del vecchissimo socialismo rieditare una sorta di “fronte repubblicano” per costringere la destra/le destre ad arretrare.

Il “terzo tempo” di questa tornata elettorale è tutto da giocare. Nessuno ha la vittoria in tasca. Macron può governare tranquillamente fino al 19 giugno. Poi non è detto che non si aprano le paratie del fortilizio politico nel quale da oggi si rinchiuderà e dilaghino altre forze che ne condizioneranno le ambizioni politiche.

Anche da come andranno le legislative si capirà quanto la Francia è divisa e che difficilmente saranno gli unguenti di un giovanotto che si gode il bis, come pochi altri suoi predecessori, a risanarla e farne il traino della nuova Europa, quella che Macron/Jupiter incominciò a sognare sui banchi di scuola.


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