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Putin e il 9 maggio. Radiografia di una festa mutilata

Putin prepara la marcia del 9 maggio per raccontare una vittoria in Ucraina che sul campo è una chimera. È una marcia sulle macerie, che però rispecchia una concezione del tempo e della storia russa molto diversa da quella occidentale. Occhio alle tribune: anche gli scorsi anni c’erano segnali premonitori

Quale vittoria festeggerà Vladimir Putin il 9 maggio? Chi conosce la Russia conosce il peso sull’immaginario collettivo della parata che ogni anno commemora la vittoria dell’Unione sovietica contro il nazismo.

Quest’anno la marcia trionfale delle truppe russe a Mosca sotto gli occhi di Putin avrà un peso senza eguali. Ma perché sia trionfale avrà bisogno di un trionfo da celebrare. Le notizie che arrivano al leader del Cremlino dal fronte però non sono rassicuranti.

Sul campo la guerra russa vive uno stallo e la preannunciata fase due per riconquistare il Donbas procede a ritmi lenti e a un prezzo umano molto alto. La stessa conquista di Mariupol, città martoriata e nelle intenzioni del governo russo sede ideale per inscenare una parata della vittoria non è ancora del tutto una missione compiuta. La strenua e stremata resistenza degli ultimi militari ucraini asserragliati nei tunnel dell’acciaieria Azovstal rischia di rovinare la festa a Putin.

Degli errori tattici e militari russi in Ucraina si è discusso molto. Dalla tentata invasione della capitale Kiev, clamorosamente fallita nel primo mese di combattimenti, ai tanti ostacoli che hanno impantanato l’avanzata delle truppe russe, dalla scarsa logistica ai mancati rifornimenti fino a una superiorità aerea mai conquistata del tutto. Come ha spiegato Edward Luttwak su queste colonne, ce n’è abbastanza per far studiare generazioni di strateghi militari a Mosca negli anni a venire. E se è vero che i rinforzi russi  inviati in Donbass e nel Sud-Est del Paese sono più preparati e meglio armati, è anche vero che i continui e sempre più massicci rifornimenti militari occidentali a Kiev promettono di trasformare lo scontro in una lunga guerra di logoramento.

Per capire il vero senso della parata trionfale di Putin bisogna fare un passo indietro dal campo di battaglia. E addentrarsi nella mente di una nazione che non è solita misurare il tempo in anni ma in decenni. Come spiega il politologo russo Ivan Krastev, Putin è fermamente convinto che una guerra con l’Occidente sia iniziata non due mesi, ma dieci anni fa. La stessa scelta di giustificare l’“operazione speciale” in Ucraina con la missione di “denazificare” il Paese vicino è figlia di una precisa strategia del Cremlino. Quella di fare della guerra in Est Europa la continuazione ideale della guerra al nazismo di settant’anni fa. Come allora i soldati sovietici issarono la bandiera a Reichstag, così ora gli “eroi” inviati in Ucraina devono issare la bandiera russa sulle macerie ucraine.

In questa perversa e illogica narrazione la vittoria o la sconfitta sul campo finiscono in secondo piano. Per un Paese che nella Seconda guerra mondiale ha perso decine di milioni di vite la marcia del 9 maggio e l’invocazione di una nuova “guerra patriottica” possono servire da anestetico efficace per una popolazione che ancora deve sentire il vero morso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale.

È un’operazione preparata da tempo, nonostante i pessimi bollettini provenienti dalle trincee ucraine. Gli effetti si vedono: due mesi fa chi in Russia si azzardava a parlare di “guerra” finiva arrestato. Oggi nella narrazione pubblica quel tabù è stato abbattuto. Il governo e la stampa ad esso affiliata raccontano l’“accerchiamento” dell’Occidente contro la Russia e il soffocamento delle sue “legittime” ambizioni. La tv trasmette la notizia dei test missilistici nucleari nell’enclave di Kaliningrad. Una guerra presentata come “umanitaria” viene oggi raccontata come guerra esistenziale.

Come in ogni parata che si rispetti, sarà anzitutto l’obiettivo fotografico della marcia militare a dare un sentore dei piani di Putin. A un occhio attento, col senno di poi, non sfuggono i segnali premonitori che negli scorsi anni, da quegli spalti, hanno dato un assaggio del nuovo corso russo. Come la progressiva virata a Oriente del parterre diplomatico presente, negli anni sempre più composto da delegazioni Est-europee e asiatiche. O ancora, fatto che non passò inosservato, la marcia congiunta per le strade di Mosca, nel 2020, delle truppe cinesi e indiane, a poche settimane da un violento scontro alla frontiera che aveva messo a dura prova i rapporti tra le due potenze asiatiche.

Chi si presenterà alla marcia di Putin quest’anno? Ci sarà, come gli altri anni, il presidente della Moldavia, ora minacciata da un’incursione delle truppe russe in Transnistria? E cosa dirà il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko, fedele e cobelligerante amico di Putin reduce da un’intervista all’Associated Press in cui riconosce che la guerra di Mosca si sta “trascinando”?

Comunque vada, è facile prevedere che per lo zar sarà una festa mutilata. Disturbata da una meno roboante ma assai decisiva passeggiata che si terrà a Kiev. Con l’invito ufficiale al cancelliere Olaf Scholz per il 9 maggio, Volodymyr Zelensky ha posto le basi per riallacciare i rapporti logorati con un Paese, la Germania, che più di tutti può sbloccare la partita delle sanzioni europee e abbattere la scure europea sul petrolio e il gas di Mosca.

C’è un solo punto di incontro tra le narrazioni che sottendono la campagna di pressione occidentale da una parte e le trombe squillanti vittoria a Mosca dall’altra. E cioè la consapevolezza che da quel 24 febbraio sia stata imboccata una strada senza ritorno. Si apre una nuova Guerra Fredda “più pericolosa di quella precedente”, dice Ian Bremmer su Foreign Affairs. Inferiore per estensione. Preoccupante per un’incertezza che non ha precedenti e un’escalation ideologica che rischia di trasformare la guerra guerreggiata in Ucraina in un piccolo tassello di uno scontro molto più ampio.


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