Le imprese e i loro principali interlocutori istituzionali sono abbastanza preparati a fronteggiare il nuovo contesto economico che stravolge quella realtà della globalizzazione a cui si erano abituate negli ultimi 30 anni? Quale spazio di manovra hanno il governo e le istituzioni finanziarie per mitigare l’impatto negativo del nuovo shock? L’analisi di Salvatore Zecchini
Man mano che le prospettive dell’economia europea e mondiale si fanno più incerte cresce l’esigenza delle imprese italiane di prepararsi a resistere a un probabile rallentamento dell’attività economica, che contrasta con le attese di inizio d’anno di una continuazione della fase di espansione avviata l’anno scorso. Per le imprese sopravvissute allo shock della pandemia, l’esperienza dell’ultimo biennio deve averle indotte a divenire più resilienti alle avversità inattese, che quest’anno si sono presentate ancora una volta nel mese id febbraio sotto forma della guerra nell’Est-Europa e delle conseguenti sanzioni a spettro molto ampio. Lo sconvolgimento in corso tocca, infatti, sia gli scambi commerciali, sia la finanza, i trasporti e i movimenti delle persone e dei capitali, come si era visto negli anni più bui della guerra fredda.
Vi è quindi da chiedersi se le imprese e i loro principali interlocutori istituzionali sono abbastanza preparati a fronteggiare il nuovo contesto economico che stravolge quella realtà della globalizzazione a cui si erano abituate negli ultimi 30 anni. Inoltre, quale spazio di manovra hanno il governo e le istituzioni finanziarie per mitigare l’impatto negativo del nuovo shock. Tre analisi ufficiali, pubblicate ultimamente, aiutano a dare una risposta al quesito.
La prima indicazione si trae dall’ultimo rapporto dell’Istat sulla competitività delle imprese, che getta anche un breve sguardo sull’anno corrente. Nello scorso anno le imprese hanno beneficiato della forte ripresa della domanda, che tuttavia non ha consentito loro di trasferire interamente sui prezzi finali i rincari dei costi che già erano considerevoli, con conseguente compressione dei margini. Le carenze di input produttivi (materie prime e semilavorati), che si sono manifestate estesamente, hanno riguardato anche l’offerta di lavoro qualificata per le nuove competenze richieste. Alla fine del 2021 più dell’80% del campione di imprese oggetto di analisi appariva aver recuperato condizioni di solidità. La nota dominante è stata, tuttavia, la diversità del miglioramento della situazione aziendale tra la manifattura, in piena espansione, e i servizi, particolarmente penalizzati dalla crisi pandemica, come pure tra comparti all’interno dei due settori.
Il diffuso miglioramento non ha messo molte imprese al riparo da difficoltà nelle catene di approvvigionamento di prodotti intermedi e primari, né dal rallentamento del fatturato negli ultimi mesi del 2021. Il fattore trainante della ripresa è stata soprattutto la domanda interna, mentre l’impulso delle opere previste dal PNRR ha interessato una minoranza di imprese (attorno al 16%), ma ne ha sollecitato l’investimento in digitalizzazione, innovazione, competitività e transizione ecologica. Un importante contributo alla ripresa è derivato dalle esportazioni manifatturiere, che hanno superato i livelli pre-pandemia e riguardato particolarmente le imprese internazionalizzate e diversi comparti, ma non tutti. Il terzo fattore di ripresa è rappresentato dal sostegno finanziario offerto dalla Bce e dallo Stato attraverso il credito bancario, che ha permesso di ripristinare livelli di liquidità sufficienti e ultimamente di ridurre il ricorso delle imprese all’indebitamento.
Di fronte alla perturbazione delle filiere del valore, la disparità di comportamento tra imprese evidenzia una certa carenza di reazione: un terzo non ha modificato le sue filiere perché ritiene le difficoltà temporanee; un altro terzo ha cambiato fornitori e volume di acquisti; ma quasi l’86% dell’insieme non ha spostato le aree di provenienza delle importazioni. Analogamente, il 90% degli esportatori non ha diversificato la composizione dei mercati di destinazione. Produrre all’estero riguarda solo una quota minore di imprese (12,9%) e tra queste soltanto il 10% circa ha riportato le linee produttive all’interno, o le ha spostate verso paesi più vicini. Indubbiamente, in periodi di crisi pandemica aggiustamenti nella struttura delle filiere sono particolarmente difficili e presuppongono la capacità delle imprese di impostare strategie dinamiche capaci di adattarsi senza indugi alle mutazioni del contesto.
Nel sistema imprese, invece, un terzo che è stato colpito dalla crisi del 2020-2021 ha riorganizzato i processi produttivi e le filiere in senso difensivo prima di riorientarsi verso l’espansione, ovvero secondo la classificazione dell’Istat hanno mostrato una “sofferenza reattiva”. Soltanto una minoranza (17,4% del campione) ha impostato tempestivamente una strategia di riorganizzazione, innovazione ed applicazione di tecnologie 4.0 (resilienza di successo). La maggioranza (49,6%), che è stata colpita dalla crisi meno gravemente, non ha reagito modificando la strategia pre-pandemia per accrescere la resilienza (resistenza statica). Nel complesso delle imprese, pertanto, non si nota un rafforzamento sostanziale della capacità di fronteggiare il nuovo shock della guerra ucraina, ma un divario considerevole tra una maggioranza alquanto statica nel resistere e un gruppo minore di imprese dinamiche in grado di effettuare aggiustamenti adottando innovazioni ed investimenti nella formazione delle competenze.
In questi comportamenti il vincolo della disponibilità di finanziamenti ha giocato solo nelle prime fasi, perché l’accomodamento monetario della Bce e l’intervento pubblico attraverso garanzie sui prestiti, finanziamenti e alcuni vincoli alle banche ha permesso alle imprese di ripristinare i livelli di liquidità al punto che a fine 2021 poco più della metà delle imprese non mostrava di dover ricorrere a finanziamenti esterni.
Con lo scoppio della guerra in Ucraina il quadro finanziario è destinato a cambiare, come si può arguire dall’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria del Paese pubblicato dalla Banca d’Italia. Gli straordinari rincari delle materie prime e dei prodotti petroliferi, già presenti nella seconda parte del 2021, hanno subito un’impennata con la guerra e portato l’inflazione nei paesi industriali a vette inaudite negli ultimi decenni. Di riflesso, le banche centrali hanno invertito rotta per andare verso la restrizione monetaria, con ripercussioni sui mercati finanziari. I tassi d’interesse a lungo termine tanto in Usa che in Europa sono in ascesa, i corsi azionari in rapida discesa e la volatilità nei mercati è elevata.
La Fed sta attuando un programma di rialzi cadenzati dei tassi sotto il suo controllo per portarli in linea col raggiungimento dei suoi obiettivi di crescita ed inflazione (2%) e ha definito un programma di smaltimento mensile della massa di titoli acquistati nello scorso biennio, drenando di conseguenza liquidità dal sistema. Sul versante europeo la Bce a giugno porterà a termine il piano d’immissione straordinaria di liquidità e si prepara ad alzare anch’essa i tassi. La sfasatura temporale con la politica della Fed ha contribuito all’indebolimento dell’euro sui mercati valutari, aggiungendo spinte all’inflazione, senza evitare che anche nell’eurozona i tassi lievitassero in reazione al nuovo picco d’inflazione.
In Italia, la pausa nella crescita nel primo trimestre dell’anno e il rialzo dei tassi si sono riflessi in una percezione di rischi in aumento, che si coglie nell’allargamento dello spread tra titoli pubblici italiani e quelli tedeschi (a 200 punti base), nonché nella maggior cautela delle banche nel concedere prestiti. L’ultima rassegna dell’attività creditizia delle banche, condotta dalle banche centrali dell’eurozona, mostra nel primo trimestre un orientamento alla restrizione delle condizioni di credito e la ricerca di limitare i rischi verso le imprese. L’abbondante liquidità in mano alle banche non si traduce in una maggiore offerta di credito, ma in un eccesso di riserve detenute presso la banca centrale (394 miliardi). Sullo sfondo dell’accresciuta incertezza del momento economico, la vulnerabilità finanziaria delle imprese appare in ascesa: secondo una simulazione della Banca d’Italia, nel peggiore scenario di rialzo dei tassi la quota di debito a rischio si riporterebbe sui picchi (37%) della fase acuta della crisi pandemica.
La grande incertezza sull’evoluzione dell’economia accentua il richiamo al ruolo della finanza pubblica nel mantenimento della stabilità macroeconomica e nel sostenere le imprese. La loro condizione attualmente è più solida di quella all’inizio della pandemia, ma gli spazi di manovra della politica di bilancio per nuovi sostegni risultano molto ristretti. Nel biennio della crisi il debito pubblico ha raggiunto il 150,6% del Pil, un livello che non soltanto a giudizio della banca centrale, espone il Paese a rischi di tensioni sui mercati. Il Governo, peraltro, continua nelle elargizioni assistenziali ad ampi segmenti della popolazione senza prestare grande attenzione al loro scarso effetto sul potenziale di crescita. Pertanto, il ruolo principale di traino è affidato agli interventi del Pnrr, in particolare agli investimenti indotti. L’Istat stima, in particolare, che 59,6 miliardi di investimenti del Pnrr generino un aumento del valore aggiunto di 38 miliardi, con un effetto maggiore per quelli in ricerca e sviluppo rispetto a quelli in costruzioni (88 centesimi per ogni euro contro 77 centesimi). L’insieme della domanda interna, tuttavia, subirà l’erosione dell’alta inflazione, che riduce il potere d’acquisto, né sembra che la propensione al risparmio eserciti un effetto compensativo, perché tende ad aumentare in tempi di incertezza crescente.
Se uno scenario avverso per la crescita si avverasse, lo spazio di manovra della Bce per sostenere la liquidità sarebbe molto limitato dall’esigenza di frenare l’inflazione. Parimenti, il margine d’azione del bilancio pubblico per fornire un aiuto mediante nuova spesa in disavanzo sarebbe incerto, ridotto ed oltretutto condizionato dall’atteggiamento dei mercati finanziari e dall’esito del negoziato sulle modifiche al Patto di stabilità e crescita. Ma sarebbero possibili interventi selettivi, mirati a favorire comportamenti “virtuosi” nelle imprese nel senso di agire per creare con le riforme un ambiente più favorevole all’attività imprenditoriale, e di indirizzare le imprese a investire per elevare i livelli di efficienza, produttività e competitività. La strada maestra in tal senso è stimolarle a investire nell’adozione diffusa delle nuove tecnologie, spingerle a prendere parte alla rivoluzione industriale in corso e restringere le aree di assistenzialismo che disincentivano il rinnovamento ed alimentano l’inerzia del sistema.