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Energia e stabilizzazione. A Washington si parla di Libia

La Libia nel dialogo tra Draghi e Biden. Il Paese può essere un fornitore di energia all’Europa che vuole sganciarsi sempre più dalla Russia. Ma serve stabilità a Tripoli

Durante la visita alla Casa Bianca, il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, ha parlato anche di Libia con Joe Biden. Draghi ha detto che il Paese può essere un enorme fornitore di gas e petrolio, non so per l’Italia ma per tutta Europa, e Biden — interessato perché l’individuazione di fornitori diversi ora significa aiutare gli europei a sganciarsi dalla dipendenza energetica russa — ha risposto: “Tu cosa faresti?”, riconoscendo all’Italia un ruolo di primo attore nel dossier. “Dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare il Paese”, è stata la replica del primo ministro italiano.

Pochi giorni fa una conversazione simile c’è stata tra l’ambasciatore italiano in Libia, Giuseppe Buccino, e l’inviata speciale delle Nazioni Unite, Stephanie Williams. Occorre “sostenere un percorso costituzionale/elettorale praticabile, al fine di consentire lo svolgimento delle elezioni nel più breve tempo possibile”, ha detto la diplomatica statunitense alla feluca italiana, che a sua volta ha evidenziato la necessità di garantire che tutti gli sforzi internazionali siano coordinati per sostenere il processo guidato dalla Libia mantenendo la calma sul campo.

Si tratta di quel “lavorare insieme” detto da Draghi che si rende necessario come risposta compatta a un momento delicato. In Libia ci sono due governi di fatto, e questa situazione ha già portato all’approfondirsi della crisi fino al punto dello scontro armato. Da una parte c’è il premier nominato dal processo onusiano del Foro di Dialogo Libico, Abdelhamid Dabaiba, che resta a Tripoli nonostante sia stato sfiduciato dal parlamento HoR di Tobruk. La fiducia gli è stata tolta perché non è riuscito a portare il Paese al voto, obiettivo del suo esecutivo ad interim, che adesso il Parlamento ha affidato a Fathi Bashaga.

Ex ministro dell’Interno del precedente Governo di accordo nazionale (il Gna onusiano), Bashaga ha ricevuto il consenso Parlamentare sulla base di un’intesa Est-Ovest attraverso la quale dovrebbe guidare il governo per il prossimo anno e mezzo e successivamente convocare le elezioni parlamentari e presidenziali. Dabaiba non vuol lasciare il potere perché si sente ancora legittimato dall’incarico ricevuto in sede Onu; Bashaga è forte della fiducia politica libica, ma non spinge l’acceleratore per entrare a Tripoli in quanto cerca di evitare uno scontro aperto.

È un processo intra-libico: stabilizzare questa fase passa indubbiamente dalla volontà delle due anime del Paese di trovare un compromesso. Tuttavia è evidente che serva assistenza da Paesi più strutturati, anche dal punto di vista diplomatico, per una mediazione. Anche perché gli effetti si fanno già sentire all’esterno della Libia. Per esempio, qualche settimana fa due dei principali campi pozzi e altrettanti terminal petroliferi libici sono stati bloccati da una mossa aggressiva guidata da Khalifa Haftar, il signore della guerra di Bengasi che un tempo cercava di rovesciare il Gna, prendere Tripoli e intestarsi la Libia come nuovo rais. Adesso invece Haftar è parte dell’accordo politico dietro a Bashaga.

La Libia ha un potenziale di produzione di greggio superiore al milione di barili giornalieri, ma attualmente l’output è circa dimezzato vittima dei fenomeni di instabilità interna. Come già lo è stato in passato d’altronde — con il mondo dell’energia, principale asset economico libico, colpito da guerre e guerriglie a secondo di necessità e interessi. Ora la questione diventa ancora più delicata se inquadrata in un contesto in cui l’Africa viene individuata da molti Paesi europei come soluzione per lo sganciamento dalla dipendenza russa. L’altra parte della questione riguarda il gas naturale.

“Il gas che viene estratto nella Libia occidentale verso il confine con la Tunisia per il 65 per cento serve ai libici e il resto va nel Greenstream”, ha spiegato Buccino durante la tavola rotonda “Focus Mediterraneo-Libia” organizzata dalla Luiss a metà aprile: “È chiaro che si possono modificare queste percentuali e aiutare i libici a produrre energia in modo alternativo e ridurre questo 65 per cento”. Aziende internazionali, come le italiane Enel e Ansaldo, hanno già progetti di produzione alternativa intavolati in Libia per far fronte alla domanda interna (Tripoli è spesso in carenza elettrica, che porta a black out generali contro cui i cittadini stanno protestando da anni).

Lo sviluppo di forme energetiche alternative potrebbe, secondo Buccino, aprire aliquote in più per le esportazioni in un mercato con potenziali di crescita del 30 per cento. Conti alla mano, se attualmente la Libia ha capacità per esportare circa 10 miliardi di metri cubi di gas annui, in futuro – con i giusti investimenti – potrebbe crescere verso i 13. A fronte di una domanda interna di circa 6 miliardi ne resterebbero 7 o anche di più secondo l’analisi del diplomatico italiano (si parla per arrotondamento, le cifre non sono perfette).

Il governo Draghi ha messo in previsione circa 2 miliardi di metri cubi dalla Libia nell’ambito del piano italiano per lo sganciamento dalla Russia — piano che ha nel Nordafrica un altro grande gancio, la partnership in approfondimento con l’Algeria. Il lineamento strategico attorno a cui ruota tutto è il Greenstream, gasdotto posato da Saipem nel 2003 che collega la costa occidentale della Libia (e il campo di compressione di Mellitah, gestito da una joint venture Eni-Noc) a Gela. L’elemento strategico attorno a cui ruotano i progetti è però la stabilizzazione libica – e non solo: senza stabilità non c’è energia.

Lo “stallo istituzionale”, per usare le parole del ministro Luigi Di Maio, è un fattore di estrema complicazione. L’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti hanno già chiesto la riapertura dei pozzi — che costa al Paese dozzine di milioni di euro di mancati introiti, i quali invece sarebbero cruciali per investimenti in servizi per i libici. Per ora gli attori interni alla Libia coinvolti nel braccio di ferro non hanno ascoltato, e la National Oil Corporation (Noc) continua a essere costretta tenere in piedi le cosiddette cause di forza maggiore che impediscono il normale esercizio dei campi estrattivi e dei terminal di esportazione.



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