Il presidente maronita ha perso perché il suo settennato presidenziale si sta concludendo con la morte del Paese, cominciata con l’esplosione del porto. Ma i libanesi con questo voto hanno dimostrato di non voler far morire la loro terra. Se il papa andrà in Libano dopo l’estate saprà certamente che gli eletti della società civile sono i deputati con cui cercare un dialogo privilegiato per inventare un domani per il Paese
Maremoto cristiano nelle elezioni libanesi. Il partito del Presidente della Repubblica, il maronita Michel Aoun, perde la metà degli eletti e viene probabilmente superato dall’eterno rivale, Samir Geagea e le sue Forze Libanesi. Ma a sorprendere tutti è il grande successo senza soldi, senza nomi di richiamo, senza sostegni internazionali dei candidati della società civile che forse riescono per la prima volta nella storia del Libano post-bellico a fare eleggere un cristiano e un druso non alleati di Hezbollah nel suo emirato, il Sud del Libano: i deputati eletti riconducibili in generale al movimento ottiene una decina di deputati su 128. Nel mondo sunnita invece, che Hariri ha lasciato senza candidati a lui riconducibili per odio verso i sauditi che lo hanno abbandonato, non emerge quel cartello di eletti favoriti o sostenuti da Hezbollah. Chi siano però gli eletti sunniti è difficile dirlo oggi, ma i nomi favoriti dal fronte pro-Hezbollah non sono passati, nonostante la grande astensione imposta dal ritiro di Hariri.
Ma si possono fare i conti del risultato senza tener conto del quadro? E di quale quadro? Questo: in un Paese terremotato dal disastro economico causato da un ceto politico dai tratti delinquenziali che ha affamato una nazione, la fotografia più significativa ritrae un elettore che giunto al seggio ci ripensa e torna indietro senza aver votato. Il senso di nausea di molti libanesi per la loro classe dirigente non poteva essere espresso meglio di così. E quanto questo riguardi tutto il “mondo libanese” lo si percepisce bene dal dato più sorprendente: calano in modo significativo i votanti anche nella milizianizzata base sciita del sud del Libano dove comanda Hezbollah, unico modo per esprimere un dissenso politico, visto che anche questa volta come sempre in precedenza tutti gli eletti sciiti sono fedeli a Hezbollah e Amal. Anche lì dunque in molti non sono andati a votare questa volta, sapendo che anche questo può pesare sulla qualità della vita di chi osa sfidare il partito-Stato del sud.
La mancanza di credibilità del ceto politico, le ripicche autolesioniste di Hariri e la resistenza di tutti gli apparati e anche della comunità internazionale a dare voce alla società civile hanno contribuito a far disperdere la rabbia popolare in astensione e non in voto per il cambiamento. Ma quel voto, come detto, c’è stato in termini mai visti in Libano.
La sconfitta di Aoun e dei suoi è il vero dato politico che già emerge e va spiegata. Aoun ha perso perché il suo settennato presidenziale si sta concludendo con la morte del Libano, cominciata con l’esplosione quasi atomica del porto, che ha fatto chiudere non solo lo scalo ma anche il principale quartiere cristiano. Sotto la sua presidenza però di quell’esplosione non si sa ancora nulla, i ministri di Hezbollah, suoi alleati, hanno fatto di tutto per sabotare l’inchiesta, il Paese è precipitato in un tracollo economico che ha portato la maggioranza dei libanesi sotto la soglia di povertà, i ceti medi – vero miracolo del Libano – emigrano per fame, le scuole cristiane chiudono, rimangono solo i traffici di armi e droga. Dunque il patriarca maronita, cardinale Bechara Rai, dopo aver tentato negli ultimi anni di far capire che l’attuale asse di governo stava portando il Libano a consunzione per tutelare una milizia khomeinista come Hezbollah che segue in tutta la regione un’agenda non libanese, ha vinto la sfida.
Ma il partito di Aoun ha perso soprattutto per la questione del porto e i reiterati tentativi di insabbiamento da parte dei suoi alleati davanti ai quali non ha saputo imporre la determinazione a difendere la ricerca della verità. Il suo settennato così è apparso finalizzato a garantire la successione presidenziale a suo genero, l’ex ministro degli esteri Gebran Bassil.
Ma il bipolarismo libanese, che sarà guidato da una parte dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah e dall’altra dal cristiano Geagea che di fatto almeno per ora sostituisce il sunnita Hariri, non può entusiasmare nessuno. L’elettore che torna a casa senza aver votato vale per tutti, non solo per la coalizione maggioritaria. Il disastro libanese, lo svuotamento delle casse statali con scelte economiche incredibili, è stato condiviso da tutti i grandi partiti, sunniti, sciiti, cristiani, maggioranza e opposizione. Un ceto politico fallito ha fatto fallire un Paese. Nelle prossime ore sarà decisivo capire chi fuori dai vecchi partiti è stato eletto. Di loro si sa che portano una piccola rivoluzione sociale nelle montagne dei drusi, lo Shouf. Si tratta infatti di eletti che sono fuori dallo schema classico, quello tribale: qui abbiamo donne, docenti, intellettuali, che si affermano senza rifarsi alle grandi famiglie. Poi c’è il voto di Beirut che va ancora capito nel dettaglio.
In qualche modo si può dire che il Libano ha dimostrato di non voler morire, anche se non crede nelle medicine che gli sono state proposte, trovando il coraggio di puntare su qualcosa di simile alla medicina omeopatica, anche se ancora a piccole dosi. Se il papa andrà in Libano dopo l’estate saprà certamente che questi eletti della società civile sono i deputati con cui cercare un dialogo privilegiato per inventare un domani per il Libano.