Mentre la Fed attua una strategia aggressiva per contrastare l’aumento dell’inflazione, la Banca centrale europea deve fare i conti con due ordini di problemi, da cui non è semplice uscire. L’analisi di Andrea Ferretti, docente Master in Scienze Economiche e Bancarie Europee, Luiss Guido Carli
Gli ultimi dati disponibili indicano che l’inflazione negli Usa si è attestata ad aprile all’8,3%. Un dato decisamente preoccupante, tanto che il presidente Biden ha di recente affermato che l’inflazione è la priorità numero uno e che va subito fermata nell’interesse dei cittadini. Dello stesso parere anche la Fed che, dopo aver effettuato un doppio aumento di tasso (0,25% a marzo e 0,50% a maggio) verosimilmente proseguirà con ulteriori aumenti dei tassi della medesima portata.
Ora, non c’è dubbio che la strategia della Fed sia molto aggressiva, tuttavia appare giustificata dal fatto che l’inflazione Usa nasce da un progressivo surriscaldamento dell’economia amplificato dalle strozzature createsi nella catena di approvvigionamenti di beni e servizi nella fase post lockdown. Dunque, una inflazione da domanda, sostanzialmente indifferente alle tensioni sulle fonti energetiche russe, ma che ha già influenzato sia l’andamento delle dinamiche salariali, sia alcuni settori dei servizi non direttamente coinvolti nello stop and go pandemico. Quanto detto appare confermato anche dall’andamento dell’ “l’inflazione core”, ossia quella calcolata al netto delle voci relative alle fonti energetiche e all’alimentare fresco, che si è attestata, anche ad Aprile, su livelli decisamente alti (6,2%).
Ma ciò che deve essere sottolineato è che la Fed ha potuto avviare per tempo questa “sacra crociata” contro l’inflazione perché non ritiene che l’aumento dei tassi possa danneggiare in maniera significativa una economia considerata, anche prospetticamente, solida e ben intonata. Diversa, invece, la posizione della Bce che ha sin qui adottato strategie anti-inflazione decisamente più guardinghe rispetto a quelle americane. Infatti, solo di recente, la signora Lagarde ha dato qualche indicazione in più sui tempi di attivazione da parte della Bce delle prime misure monetarie restrittive: termine del programma di acquisto di titoli sovrani intorno all’inizio del terzo trimestre 2022 e successivo (“dopo qualche settimana”) primo innalzamento dei tassi.
Ora, l’atteggiamento della Bce deriva dal fatto che, mentre la Fed combatte solamente sul fronte della spirale inflazionistica, la Banca centrale europea è impegnata almeno su due fronti: quello dell’inflazione e quello del brusco rallentamento della crescita europea. Per quanto riguarda il primo fronte, è importante sottolineare che l’inflazione europea non deriva affatto dal surriscaldamento dell’economia. Si tratta, piuttosto, di una inflazione da offerta derivante, da una parte, dai traumi connessi alla scarsa disponibilità di beni e servizi nella fase post pandemia. Dall’altra, dalla lievitazione dei prezzi delle fonti energetiche a seguito della crisi ucraina e delle pressioni speculative. Il punto è che, in presenza di una inflazione da offerta, la manovra sui tassi può forse limitare i danni causati dalla spirale inflazionistica, ma non è certo in grado di trovare soluzioni strutturali. In concreto, se gas e petrolio diventano merce rara, anche solo a livello di aspettative, poco può fare l’innalzamento dei tassi per evitare la fiammata sui prezzi.
Come detto, il secondo fronte su cui deve combattere la Bce è quello della crescita. Qui il problema è connesso al fatto che l’inflazione dell’Eurozona è molto contagiosa in quanto colpisce “all’origine” i processi produttivi. Infatti, nel momento in cui, a causa della crisi Cov-energetica, i prezzi delle materie prime, dei semilavorati, del gas e dell’elettricità lievitano contemporaneamente, è evidente che le ricadute sul mondo delle imprese sono immediate. Oltretutto, specie in Italia, il tessuto produttivo è spesso caratterizzato dalla presenza di grandi aziende energivore che fungono da capostipite di lunghe filiere produttive. Anche nel caso in cui alcune Pmi a valle fossero meno colpite dall’esplosione dei costi energetici, queste ultime subirebbero comunque i contraccolpi negativi connessi alle difficoltà produttive delle grandi energivore a monte.
Il punto è che, guardando al futuro, qualora i descritti fenomeni dovessero perdurare nel tempo, l’inflazione da offerta subirebbe una mutazione genetica che la trasformerebbe in una stagflazione caratterizzata dalla contemporanea presenza di inflazione e stagnazione dell’economia europea. In questo scenario la Bce si troverebbe però davanti ad un pericoloso bivio: aumentare sensibilmente i tassi sulla scia della Fed per contenere l’inflazione, rischiando però di generare una profonda recessione. O, al contrario, rendere molto graduale sia il rientro dalle misure espansive di emergenza, sia l’innalzamento dei tassi. In questo caso la Bce sosterrebbe il tessuto produttivo europeo, esponendosi però ad un incremento del rischio inflazionistico. Nel 2008, l’allora presidente della Bce Trichet, spaventato dall’aumento dei prezzi del petrolio e dei generi alimentari, decise di alzare bruscamente i tassi di interesse.
Peccato che, così facendo, spinse l’economia europea in una crisi di rara profondità (Sindrome di Trichet). E allora, forse, la Bce, più che davanti ad un pericoloso bivio, potrebbe trovarsi presto di fronte ad una subdola “forbice del diavolo”.