Gare annullate, esami sospesi. La superficialità nell’uso della lingua italiana è una vera emergenza per la Pubblica amministrazione. Il commento di Antonio Mastrapasqua
Gli italiani non sanno l’italiano. È una triste constatazione che trova ogni giorno una conferma. Una delle ultime – e per certi versi più drammatiche – viene dal concorso per 310 posti in magistratura. Avviato prima del Covid, e proseguito con qualche tormento durante e dopo la pandemia, è giunto finalmente a una prima conclusione: l’ammissione alla prova orale. E qui arriva la sorpresa. Solo 220 sono stati promossi allo scritto. Mancheranno almeno 90 magistrati. E questo è l’aspetto funzionale. Dramma nel dramma è che dei circa 3800 candidati solo il 5% ha superato lo scritto, non solo per errori nell’area del diritto, ma per una grave e manifesta incapacità a scrivere.
Il dubbio che tra la magistratura e la lingua italiana e la sua sintassi non corresse buon sangue lo hanno avuto spesso coloro che hanno avuto a che fare con il sistema giudiziario. Molti specialisti (linguisti) hanno da tempo rilevato le lacune: “La costruzione dei giudizi è spesso tortuosa e faticosa, già a prima vista. La lunghezza spropositata, contraria al requisito della sintesi, maschera il difetto di lucidità. Il percorso logico è complicato, talvolta arduo, per la vastità ed eterogeneità dei materiali da esaminare e valutare: pluralità di atti, diversità di operazioni tecniche, varietà di temi ed argomenti. Specie in materie scientifiche, che implicano il ricorso ad altre metodologie, e nelle quali si dovrebbe fare buon governo dei criteri basilari del ragionamento probatorio, emergono oscurità e incoerenze”.
È capitato spesso, ahimé che anche nella preparazione dei concorsi si fosse manifestata – e in questo caso non sempre in area giuridica – una grave impreparazione circa la lingua italiana. Gare annullate, esami sospesi: la sciatteria nell’organizzazione delle prove si accompagna spesso con una superficialità nell’uso della lingua che ne denuncia la scarsa frequentazione.
I test Invalsi 2021 hanno evidenziato che, alla maturità, metà degli studenti ne sa, della lingua italiana, come nella scuola media e spesso non è in grado di comprendere testi di media difficoltà né di riassumerli e spiegarli.
Il problema, ahimé non è nuovo. È rimasto inascoltato l’allarme lanciato nel 2017 da ben 600 accademici per denunciare la scarsa conoscenza della lingua italiana da parte delle nuove generazioni. La scrittura, una delle abilità fondamentali nella civiltà – non solo occidentale – è in fase di grave decadimento. Soprattutto in Italia. Sarebbe sbagliato dare tutta la colpa alle nuove tecnologie della comunicazione che inducono a espressioni compulsive, alla preferenza di icone rispetto alle parole.
Nella lettera aperta del 2017 i 600 docenti italiani scrivevano che “alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare”. Eppure, nulla è cambiato. Anzi, forse la situazione è peggiorata.
Quante volte si è imputato alla scuola italiana, e alla Università, di non introdurre un obbligo alla scrittura. All’estero i percorsi formativi sono accompagnati obbligatoriamente alla stesura di relazioni, sintesi, verbalizzazioni scritte, che costringono gli studenti ad articolare la logica e la comprensione con gli strumenti della socializzazione della conoscenza, cioè la scrittura.
La ricerca scientifica ha da sempre la necessità di produrre bibliografia, cioè testi che possano spiegare e suffragare le esperienze empiriche e le indagini speculative. Ma per arrivare a questa abitudine, oltre a leggere molto, molto si deve fare per imparare a scrivere.
È esperienza comune che nemmeno all’Università i nostri studenti siano obbligati a produrre testi scritti, a prescindere dalla loro materia di specializzazione. E questo produce effetti negativi.
Una di queste conseguenze è forse anche la scelta recente della Gran Bretagna, che ha escluso tutte le Università italiane dal novero delle “migliori”. In realtà la questione è un po’ più complessa. La Gran Bretagna apre ai laureati che hanno studiato negli atenei più prestigiosi del mondo: potranno ottenere visto e permesso di lavoro in tempi molti rapidi nonostante la Brexit.
Ma nessuna università italiana compare sulla lista: i giovani laureati in Italia sono perciò esclusi. Si tratta della cosiddetta ‘High potential individual visa route‘, che scatterà il 30 maggio. È un nuovo schema studiato per attrarre i giovani più qualificati a trasferirsi e lavorare in Gran Bretagna: chi negli ultimi cinque anni si è laureato in una delle università nella lista pubblicata dal governo britannico sarà esentato dalle lunghe procedure previste per ottenere il visto.
La lista delle università di prestigio è stata compilata dal Governo inglese basandosi su tre classifiche internazionali: la Times Higher Education World University Rankings, la Academic Ranking of World Universities e la Quacquarelli Symonds World University Rankings. La lista comprende 37 centri di eccellenza, 23 dei quali sono negli Stati Uniti o in Canada, 8 in Asia e una in Australia. Solo cinque atenei europei compaiono nell’elenco: l’Università di Monaco in Germania, Paris Sciences et Lettres in Francia, il Karolinska Institute in Svezia e due in Svizzera: l’Istituto federale svizzero di tecnologia e il Politecnico federale di Losanna.
È comprensibile che nella lista sia emersa la “preferenza” per gli atenei anglosassoni. Meno comprensibile la difesa automatica scattata in chi ha voluto difendere l’eccellenza dell’Accademia italiana. Intendiamoci, qualche eccellenza per fortuna l’abbiamo (Bocconi, Sapienza, Normale di Pisa, Politecnico di Milano e di Torino), ma di fronte alle bocciature sarebbe sempre meglio chiedersi perché si perde, piuttosto che coltivare l’abitudine di prendersela con l’arbitro.