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L’orgoglio del passato e le idee nuove di De Mita. Parla Castagnetti

L’ex segretario del Partito Popolare: “Il popolarismo era la bussola che guidava la sua azione politica, e in qualche modo lì identificava l’antidoto al populismo. Ma oltre ai riferimenti intellettuali, era lui stesso ad avere un’ambizione di pensiero”

Fino a questa mattina era ancora il primo cittadino della sua città natale. Probabilmente, nella memoria della sua Nusco, il suo nome rimarrà indelebile. Come un po’ in quella di chi ha vissuto gli anni della Prima Repubblica. Perché Ciriaco De Mita, morto questa mattina a 94 anni nella sua villa ad Avellino, incarnava la quintessenza di quella stagione politica irripetibile. Il suo volto e la sua storia hanno un legame inscindibile con lo Scudo Crociato, partito di cui conservava ancora l’identità e le battaglie. Più volte ministro, presidente del Consiglio dall’88 all’89, De Mita fu segretario e presidente della Democrazia cristiana. “Un segretario Dc che però aveva la testa al Paese”, perché la sua missione “non è mai stata solo elettorale: aveva in mente di cambiare l’Italia”. Lo ricorda così Pierluigi Castagnetti, ex prima fila della Dc e già segretario del Partito Popolare.

Castagnetti, in che modo De Mita avrebbe voluto cambiare il Paese?

La sua idea era quella di fare dell’Italia una democrazia moderna, efficiente. D’altra parte fu uno dei primi a parlare di riforme istituzionali e costituzionali. Erano tempi lontanissimi, nei quali lui spesso risultava un precursore assoluto.

Di che anni parla?

Ho in mente, nitido, un ricordo. Era il 1969: la corrente della Dc “Base” organizzò un convegno a Firenze. Ma la stranezza fu che di quel convegno non venne indicato il titolo. Io partecipai incuriosito perché, l’unica cosa che si seppe è che Ciriaco avrebbe tenuto una relazione. Ebbene, il suo intervento si concretizzò in una proposta: un patto costituzionale.

E cosa prevedeva?

Un accordo tra le grandi forze popolari che avevano scritto la Costituzione, per innovarla e rendere le istituzioni più capaci di interpretare l’espressione popolare. Un’innovazione senza eguali dal punto di vista della rappresentanza.

In qualche modo, un visionario. 

Certamente. Ricordo che, nell’83, quando affrontò la sua prima campagna elettorale da segretario della Dc, fu il primo a parlare di rinnovamento della forma dello Stato. La sua aspirazione sarebbe stata quella di plasmare uno Stato più vicino ai cittadini. Era sua convinzione, infatti, che se la democrazia non è impastata del sentimento della gente è una democrazia fragile.

Quali erano i suoi riferimenti intellettuali?

Sicuramente De Gasperi. Poi, nella seconda parte della sua vita politica scoprì il pensiero di don Sturzo e se ne innamorò. Così come divenne discepolo convinto di Aldo Moro. Il popolarismo era la bussola che guidava la sua azione politica. E in qualche modo nel popolarismo lui  identificava l’antidoto al populismo. Ma oltre ai riferimenti intellettuali, era lui stesso ad avere un’ambizione di pensiero.

Si spieghi. 

Ciriaco amava mettersi attorno a un tavolo e confrontarsi con persone capaci di produrre pensieri e idee nuove. De Mita nel corso della sua vita ha sempre rivendicato orgogliosamente il passato della Dc. Ma, d’altro canto, si sentiva addosso la responsabilità di produrre idee nuove.

Come era il suo rapporto con Andreotti?

Un rapporto di rispetto, ma di non particolare collaborazione. Ne riconosceva le capacità come uomo di Stato, ma senza grande trasporto.

Le raccontò qualcosa della sua esperienza come presidente del Consiglio?

Sì, ripercorreva spesso episodi di quella stagione meravigliosa, sebbene la sua esperienza al governo fu troppo breve. Ricordava con grande piacere le relazioni internazionali che fu capace di intessere. In particolare quella con Gorbačëv, all’indomani della caduta del muro. Gli anni in cui, dopo l’infrangersi del regime, si ridisegnavano gli equilibri del mondo.

De Mita non abbandonò mai la politica. A 94 anni, era ancora sindaco di Nusco. Un’incapacità di uscire di scena?

Ciriaco avrebbe risposto in due modi a questa domanda. La prima risposta è che la politica, per chi l’ha fatta negli anni in cui l’abbiamo fatta noi, ha creato una sorta di dipendenza. E l’altra è che non ci si può dimettere dalla politica. Finché si ha la facoltà di pensare, si è animali politici. Sarebbe come chiedere a un poeta di smettere di scrivere poesie.

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