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Vorrei ma non posso, l’abito di gala del Palazzo. Il mosaico di Fusi

Conte e Salvini in cuor loro magari la crisi la vorrebbero davvero, ma non possono farla perché diventerebbe un boomerang. La Meloni non vuole sostenere il governo ma non può esimersi dal farlo se si tratta di scelte atlantiche. La rubrica di Carlo Fusi

Qualche giorno fa avevamo analizzato le ragioni (e le possibili convenienze) che spingerebbero Giuseppe Conte a smarcarsi dalla maggioranza e dal governo in occasione del dibattito sulla situazione in Ucraina che avverrà il prossimo 21 giugno in Parlamento sulla base di una relazione di Mario Draghi in vista del Consiglio Ue.

Avevamo altresì anche sottolineato i motivi per cui quella divaricazione era (forse) bella ma (sicuramente) impossibile: provocare una crisi in questo momento sarebbe esiziale; farlo sulla politica estera e sulla guerra, irresponsabile.

A quelle argomentazioni si è aggiunto nelle ultime ore il ministro leghista Giancarlo Giorgetti, “governativo” per eccellenza del Carroccio, che ha parlato di “possibili rischi” in vista di quel voto. A testimonianza che il problema esiste. Ma che pure invece che una mina ad orologeria è piuttosto un fuoco d’artificio a fini mediatici. Quello di Giorgetti, infatti, più che un allarme sul fatto che al M5S potrebbe aggiungersi una fetta di parlamentari leghisti anti-Draghi appare un monito a serrare i ranghi proprio perché divaricazioni e smottamenti su un crinale delicatissimo come quello del conflitto Russia-Ucraina e sulle conseguenze che determina nelle economie dei singoli Paesi della Ue, screditerebbe l’Italia che al contrario proprio con Draghi ha acquisito prestigio e capacità di movimento come non accadeva da decenni. Mettendo a rischio i 210 miliardi del Recovery.

Il che non toglie che ci avviciniamo all’ennesima torsione paradossale della politica. In Parlamento infatti potrebbe accadere che mentre il MoVimento e chissà chi altri prenderebbero le distanze da Palazzo Chigi, un endorsement assai significativo arriverebbe da FdI di Giorgia Meloni, pronta a supportare le iniziative del governo con molta più nettezza di quanto fa Salvini e certamente in maniera politicamente più sostanziale di quanto fa Giuseppi.

Vuol dire che è alle viste un cambio di maggioranza come peraltro proprio l’ex premier ha denunciato in occasione dell’elezione di Stefania Craxi a presidente della Commissione Esteri del Senato al posto di un silurato esponente pro-Putin dei Cinquestelle?

No. Casomai l’ennesima riproposizione del “Vorrei ma non Posso” che sembra essere diventato l’abito di gala del Palazzo. Conte e Salvini in cuor loro magari la crisi la vorrebbero davvero, ma non possono farla perché diventerebbe un boomerang. La Meloni non vuole sostenere il governo ma non può esimersi dal farlo se si tratta di scelte atlantiche.

Una variante del “Vorrei ma non Posso” si profila anche per il dopo-elezioni del 2023, allungando la sua ombra di incertezza dietro una apparente cortina di fermezza. Sia Conte, in questo appoggiato da Enrico Letta, sia Salvini hanno infatti escluso una riedizione delle larghe intese una volta chiuse le urne. “Chi vincerà governerà”, è il refrain intonato da entrambi.

Giusto, anzi giustissimo. Se gli italiani vanno a votare e gli si chiede di scegliere da chi essere governati non si può poche settimane dopo fare spallucce e rinnegare quella scelta all’insegna degli accordi tra partiti in Parlamento: peraltro anche questi ultra legittimi.

All’inizio della legislatura un governo che mette insieme chi in campagna elettorale si è scontrato è un ossimoro che serve solo a vieppiù allontanare i cittadini dalle urne.

Tuttavia il punto è che se non cambia (e non cambia) la legge elettorale, gli schieramenti si presenteranno ai nastri di partenza nella silhouette abituale, indossando appunto il vestito di gala di sempre, ancorché vistosamente rattoppato. Centrodestra e centrosinistra chiederanno di essere premiati per poi governare nonostante siano profondissimamente divaricati al loro interno e manchi il collante giusto per affrontare le sfide che attendono il Paese. Insomma anche in questo caso un clamoroso “Vorrei ma non Posso” sull’altare della governabilità.

Può succedere che chiusi i seggi e misurati i rapporti di forza elettorali in un Parlamento forzosamente ridotto nei numeri (altra perla del velleitarismo grillino a cui è stato reso omaggio) le singole forze politiche optino per intese ed alleanze diverse da quelle annunciate e proposte agli italiani. Si è infatti favoleggiato nei giorni scorsi di possibili aggregazioni Lega-FI-M5S da un lato e Pd-FdI dall’altro. Oltre che inverosimili, simili incastri garantirebbero la fantomatica governabilità? È più che lecito dubitarne. Anche qui, “Vorrei ma non Posso”.

Il punto vero dei proclami sul no a larghe intese nel dopo voto politico sta nell’indisponibilità di Draghi. Il Capo dello Stato gli affidò l’incarico senza preventive consultazioni coi partiti consapevole della difficoltà del momento con il sostanziale collasso delle forze politiche incapaci di mettere insieme una maggioranza credibile, e della necessità, diciamo così, di calare un asso. Nel 2023 quella via d’uscita risulterà preclusa. Quel “Vorrei ma non Posso” però è il più complicato di tutti.

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