In Italia la contrattazione praticata dalle organizzazioni del lavoro comparativamente più rappresentative copre ogni settore, salvo coloro che sono regolati dalle partite iva. Dunque, un intervento pur necessario per noi dovrà tenere conto di elementi diversi dagli altri sistemi europei. L’opinione di Raffaele Bonanni, già segretario nazionale Cisl
Si sente un gran rumore sulla pressione dell’Unione europea sul salario minimo, ma pur essendo un tema importante per moltissimi Paesi membri, il tema non riguarderebbe l’Italia. Infatti la soluzione di fissare i minimi salariali riguarda la maggioranza degli europei ma non noi, in quanto la loro contrattazione nazionale non è diffusa e praticata, e i loro lavoratori sono alla mercé di imprenditori spregiudicati, privando così anche il sistema giudiziario, in caso di contenzioso tra lavoratori ed imprese, di riferimenti necessari per stabilire eventualmente la giusta retribuzione da attribuire.
In Italia invece la contrattazione praticata dalle organizzazioni del lavoro comparativamente più rappresentative copre ogni settore, salvo coloro che sono regolati dalle partite iva, che sovente non sono lavoratori autonomi ma lavoratori dipendenti sotto mentite spoglie, costretti da imprenditori al taglieggio di salario e contribuzioni sociali. Dunque, un intervento pur necessario, per noi dovrà tenere conto di elementi diversi dagli altri sistemi europei, e non a caso a ogni Stato membro è stata lasciata la possibilità di regolare una soglia minima retributiva.
Va precisato che per rendere efficiente il sistema italiano, occorrerà intervenire con decisione nell’area coperta dai cosiddetti contratti “pirata”, che seppur residuale, soprattutto nel terziario, riescono a introdursi surrettiziamente nel sistema, per mancanza di sorveglianza del ministero del Lavoro e degli organi ispettivi Inps. Va anche revisionata la regolazione dei rapporti di lavoro dei “parautonomi” (partite iva e altri) che come si è detto è un’altra falla che viene abbondantemente utilizzata per sottomettere persone bisognose di lavoro a sistemi di retribuzione e copertura sociale indecenti.
E allora, aldilà dei soliti palloni mediatici che ostacolano spesso la ricerca di ragionevoli soluzioni, devono essere le parti sociali con il ministero del Lavoro che dovranno trovare una soluzione al problema. Sarebbe grave delegittimare le organizzazioni del lavoro, che comunque vanno responsabilizzate. Va ricordato che il sistema contrattuale italiano, più che in altri Paesi, svolge in autonomia un compito che nessun altro soggetto, compresi quelli istituzionali, riuscirebbe a fare meglio. Quindi subito va aperto un confronto vincolante per un accordo interconfederale tra governo e parti sociali, per definire regolazioni normative di garanzia sociale e di diritti sindacali base per tutti, giacché il tema non potrà esaurirsi solo con una nuda tariffa salariale. L’accordo dovrà contenere anche una scelta vigorosa fiscale privilegiando i salari bassi.
Secondo me queste possono essere le soluzioni più concrete che dovranno spingere governo e parti sociali a rivoluzionare il loro consueto comportamento teso ad indebolire la loro funzione preziosa di fronte alle ondate mediatiche prive di ancoraggi saldi con realtà generale italiana. La condizione pietosa italiana, ormai ultima ruota del carro Ocse come risulta dai dati sconvolgenti che raccontano di salari scesi a 3% in meno in trent’anni, con tedeschi e francesi sono cresciuti del 30%, sono frutto amaro di bassa produttività del sistema Paese e di molte aziende, di tasse sul lavoro le più alte tra i paesi Ocse, e di regolazioni normative e contrattuali ancora influenzate da ideologie ormai nemiche del buon lavoro e dell’impresa.
Mi pare allora più che giusto che, accanto alla vicenda del salario minimo, ci si dedichi nel contempo anche ai salari in generale. Essi potranno crescere sensibilmente solo incrementando la produttività con tasse zero sui salari di risultato, se vogliamo davvero che il reddito dei lavoratori abbia un concreto e possibile incremento, considerando che masse salariali in crescita, come conseguenza incremento di produttività, non gravano sull’inflazione.