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L’Europa ha bisogno di un nuovo progetto per il Mediterraneo, spiega Redaelli

Secondo il docente della Cattolica, Bruxelles ha la necessità di cambiare passo e creare un progetto di partenariato Ue-Med che possa funzionare ed essere condiviso tra tutte le sponde del bacino. Il vecchio “format” non funziona più

Anche il Mediterraneo è oggetto di quel mutamento del sistema internazionale che sta producendo una diffusione di potenza accelerata, sebbene ancora instabile. Stante ciò, ogni attore singolo o raggruppamento di attori  è obbligato a ripensare posizionamento, ruolo e strategie. Un processo obbligato, che si compone di due livelli di analisi: quello contingente e quindi necessariamente reattivo; quello di lunga durata, più strategico e che dovrebbe essere proattivo.

“Sebbene la forza del cambiamento sia meno brutale nel Mediterraneo che in altre regioni, questo enfatizza i limiti storici dell’Unione Europea come attore geopolitico”, sostiene Riccardo Redaelli, professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dirige il Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo Allargato (CRiSSMA).

“L’UE nell’ultimo decennio è stata di una passività e di una disattenzione sconfortante verso il Meditertaneo”, aggiunge Redaelli in una conversazione con Formiche.net: “Il sostanziale fallimento delle politiche di partnenariato UE-Med ha portato all’idea che meno avessimo a che fare con quella regione meglio sarebbe stato. Idea folle e suicida”.

Per il docente però, c’è una differenza tra ciò che ha fatto l’Unione e ciò che fanno gli Stati membri: “In questo decennio — continua — si è assistito a un aumento delle vecchie meschine rivalità fra i Paesi che hanno disarticolato le politiche europee nelle aree di crisi. Non demonizzo l’interesse nazionale, ovviamente. Ma alcune capitali non hanno capito che l’interesse nazionale non può essere usato come un martello contro gli altri stati UE, perché il risultato a quel punto è che si perde tutti, perché nessuno stato singolo può pensare di beneficiare dell’assenza di una visione europea. E tanto meno di un ruolo euroatlantico, non possiamo immaginare di agire contro o completamente senza Washington”.

È una fase molto delicata per il Mediterraneo, perché il bacino sta vivendo una sua nuova centralità, che è in parte in negativa, conseguenza delle guerre civili, delle proxy wars. Ma per buona parte è positiva, frutto del grande ruolo commerciale ed economico della regione, che rappresenta l’1% delle acque del mondo, ma vede muoversi il 15% delle merci e il 20% del valore prodotto a livello globale.

A questo punto viene da chiedersi qual è il cambio di passo che serve all’Europa, anche perché un nuovo progetto UE per il Mediterraneo inizia a essere richiesto da varie parti. “Credo sia assolutamente evidente che la passività di questi ultimi anni debba finire — commenta Redaelli — e la guerra in Ucraina non può essere usata come scusa da alcuni paesi del centro-nord europeo per bloccare nuovamente l’inizio di una nuova stagione euro-mediterranea”.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha detto che “ciò che accade lungo le coste del Mediterraneo riecheggia in tutta l’Unione Europea, che ha una responsabilità particolare nei confronti di tutti i paesi mediterranei”, definendo l’Europa “un continente mediterraneo”. È rassicurante per una nuova visione? “Non del tutto — risponde Redaelli — perché la Commissione Europea è ossessionata dai Formati: quando ne crea uno, cambiare è difficilissimo. Ma il format del vecchio modello di partenariato EU-Med non funziona. Non dobbiamo cadere nell’errore di proporre una visione preconfezionata alla sponda sud, che non è frutto di un lavoro comune di condivisione e creare il solito meccanismo: finanziamenti in cambio di riforme liberali (o meglio: di finte riforme liberali) come in passato. So che è un discorso che può irritare qualcuno, ma va detto”.

Per il docente della Cattolica, servirebbe immaginare nei prossimi anni una nuova architettura di human security nel bacino allargato che possa essere condivisa da tutte le sponde. Un’azione politica (e geopolitica) inclusiva, non fatta calare dall’alto attraverso formule europee. “Il che — precisa — non significa rinunciare ai nostri valori o fondamenti, ma scegliere un modello di engagement che non suoni solo formale o possa sembrare tardo-coloniale”.

L’Italia qui può fare tanto. Non solo per la sua posizione, per la sua storia e tradizione verso il Mediterraneo. Probabilmente anche perché il nostro Paese è capace più di altri di proporci con i popoli del mediterraneo allargato in modo non dogmatico, ma dialogante. “Sì, ma stare simpatici non basta, dobbiamo avere una visione che sia strategica e di lungo periodo. Perché i cambiamenti che ci aspettano nei prossimi decenni richiederanno tutta la nostra capacità di gestire questo mutamento. Dinanzi a problemi che ci spaventano, l’errore più grave è fingere che non ci siano e limitarsi a subirli”, chiude Redaelli.



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