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Metamorfosi chiamata città

Il dibattito sulla città è il grande assente del discorso pubblico e politico italiano. Pensare la città vuole dire avere una visione complessiva della realtà e sapere immaginare come trasformarla.
L’urbanistica è un fatto politico ed è un fatto urbano. Raccorda interessi economici e sociali, ma come risultato produce la forma e la qualità della città e del territorio, ovvero qualità della vita.
Il processo urbanistico oggi si è purtroppo burocratizzato e progressivamente ridotto a mero terreno di scontro politico, abdicando alla sua ragione primaria che è il progetto delle trasformazioni urbane.
È indispensabile recuperare la capacità di coniugare la composizione degli interessi (che è fatto politico e materia normativa) con la forma urbana (che è fatto fisico e materia progettuale). Solo attraverso un recupero effettivo del progetto urbano al processo decisionale che governa le mutazioni della città sarà possibile riportare le trasformazioni urbane italiane al passo della miglior produzione europea contemporanea. Si possono immaginare nuovi strumenti normativi adeguati per raccordare interessi e progetti, e utilizzare al meglio quelli esistenti. Il dibattito sulla città e sulla sua forma va riportato al centro del discorso culturale e politico.
 
È indispensabile giocare d’anticipo invece che di rimessa. Si deve discutere della selezione e della qualità dei progetti prima che il processo decisionale sia concluso, e non soltanto dopo come avviene adesso. Oggi si confrontano la sindrome dell’autocrazia di investitori e politici da un lato (i progetti si vedono solo a giochi fatti) e la sindrome del no dei vari comitati dall’altro (contrapposizioni a volte inutilmente frontali). Entrambe le parti sono portatrici di legittimi interessi, che non trovano un punto d’equilibrio perché entrambe le parti lo ricercano nell’esito dello scontro invece che nell’unica composizione possibile: quella del progetto.
 
Riciclare il territorio
In Italia il 50% circa dell’intero patrimonio edilizio è stato costruito nel dopoguerra. Per una serie di ragioni che sarebbe lungo elencare qui, questo enorme e rapidissimo sviluppo è stato molto poco controllato. Le criticità delle nostre città sono in larga parte effetto di questa deregulation urbanistica di fatto.
Scontiamo inoltre la perversione di meccanismi economici che hanno attivato circoli viziosi: ad esempio il risparmio privato che viene investito in mattone anziché in prodotti finanziari congestiona la città e consuma inutilmente territorio; oppure il fatto che molti Comuni costretti a fare cassa incentivino nuove costruzioni per poter disporre degli oneri di urbanizzazione.
Invece di continuare ad espandere la città e consumare territorio si può iniziare a pensare di rifarla: individuare le parti più compromesse (che non sono necessariamente quelle più degradate) e demolirle.
Dove la città evidentemente non funziona – o non funziona più – si può rifare.
Si possono demolire gli edifici per ricostruire al loro posto nuovi quartieri che soddisfino i legittimi desideri dei cittadini di spazi urbani più verdi, meno a misura d’automobile, multifunzionali, con spazi di lavoro e spazi di vita ed energeticamente più efficienti.
Attraverso le demolizioni è possibile rimodellare la città. Si può immaginare un progetto che si assuma la responsabilità di eliminare ciò che intralcia e che si prenda la libertà di decidere come utilizzare il vuoto che ne deriva. Si possono immaginare strumenti normativi, economici e fiscali per dare concretezza economica a questa trasformazione e attivarla.
 
Riconnettere con lo spazio pubblico
Ovviamente non è possibile demolire intere parti di città, ma solo aree selezionate, e a condizione di raggiungere un bilancio economico complessivo.
Si può però sempre intervenire sullo spazio pubblico – oggi residuale – che può essere un potente strumento di riqualificazione delle periferie ed uno stimolo all’iniziativa immobiliare, potendo influire in maniera morbida sul valore delle aree. Per fare un esempio (utilizzato con successo in Spagna) creare un parco in una zona molto congestionata aumenta il valore degli edifici al contorno ed attiva il mercato immobiliare privato.
 
Nuovi cittadini
Altro tema strategico per le città del futuro è quello dell’immigrazione e quindi della definizione di strategie urbanistiche appropriate per articolare la presenza sul territorio di numeri ingenti di nuovi abitanti provenienti da culture e territori diversi. Il fenomeno è vecchio quanto il mondo, come ben testimonia la storia della città mediterranea. Di nuovo c’è solo la velocità del mutamento e quindi la necessità di rispondere altrettanto velocemente a fenomeni magari poco popolari, ma ineludibili. Rinunciare ad affrontare la questione significa lavorare affinché il problema si radichi nella città allontanandone la risoluzione. Costruire ghetti oggi significa doverne affrontare i problemi domani.
 
Multifunzionalità, diversità e specificità
Le dinamiche del capitalismo contemporaneo tendono ad omologare attraverso il tessuto commerciale i centri delle nostre città, che vanno riducendosi ad essere quasi esclusivamente centri commerciali e terziari e quindi a monofunzionalizzarsi.
La battaglia per il mantenimento della diversità che ha giustamente riguardato i prodotti alimentari e la cultura gastronomica (si pensi al movimento slow food) dovrebbe concentrarsi anche sulle città, patrimonio ben più prezioso. Si può cercare di avere un mix di negozi, uffici, appartamenti e residenze. L’uso misto va perseguito sia a livello di vicinato, che di edificio, che di quartiere. Altrettanto importante è avere nello stesso luogo persone differenti: per età, livello economico, cultura, provenienza.
Dovrebbero essere compresenti edifici diversi per tipologia, dimensione, accessibilità di prezzo. Si tratta di una politica innovativa, perché quelle attuali vanno purtroppo in direzione opposta, ma al tempo stesso antica perché quelle descritte altro non sono che le caratteristiche tipiche della città storica.


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