Intervista esclusiva di Formiche.net a Boris Bondarev, il primo e unico diplomatico russo che si è ribellato a Putin condannando la guerra in Ucraina e vive nascosto. La Russia dello zar non torna indietro, vuole altre vittorie militari e si può fermare solo sul campo di battaglia. I ricordi, i timori, un consiglio all’Italia e all’Occidente nella tempesta
“Ha paura?”. “No”. Boris Bondarev non esita un attimo. Ai più il suo nome dice poco. Un diplomatico russo, come tanti. Vent’anni al servizio della patria, una lunga carriera culminata nella missione russa a Ginevra, presso l’Onu. Ma Boris Bondarev non è uno dei tanti. È il primo funzionario in carica del governo russo ad aver condannato pubblicamente l’invasione dell’Ucraina. È l’unico ad averlo fatto. Un mese fa una sua lettera aperta, cui sono seguite le dimissioni immediate, ha fatto il giro del mondo. “Non mi sono mai vergognato del mio Paese quanto il 24 febbraio di quest’anno”, è l’incipit di un lungo j’accuse contro Vladimir Putin e il suo sistema di potere. Tanto schietto, tanto inaspettato da lasciare di stucco, in silenzio, il palazzone sovietico di piazza Smolenskaya, quartier generale del ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Un mese dopo Bondarev parla con Formiche.net in un’intervista esclusiva, la prima a un giornale italiano. Uno dei pochissimi strappi concessi alla clandestinità. Parla da un luogo nascosto e sicuro, che per ovvie ragioni non può rivelare.
Riavvolgiamo il filo. Quando ha deciso che doveva scrivere quella lettera?
L’ho scritta il giorno stesso dell’invasione, il 24 febbraio. Ci è voluto del tempo per rivederla, modificarla.
Perché lo ha fatto?
Per me era ovvio: abbandonare il mio lavoro in silenzio non sarebbe stato sufficiente per fare la differenza. Se lo avessi fatto, non avrei potuto dire ciò che era mio dovere dire. Sapevo che la mia lettera sarebbe circolata, che in tanti l’avrebbero letta realizzando che non tutti i funzionari russi sono complici della guerra di Putin.
Continuare a lavorare per il governo era insostenibile?
La situazione è andata peggiorando negli ultimi anni. Solo il 24 febbraio però ho realizzato che restare un minuto in più avrebbe significato tradire me stesso, i miei principi. Oggi il servizio pubblico russo è pieno di persone abituate a dire “sì” ai loro capi, qualunque cosa dicano o facciano. Non hanno un’opinione, se ce l’hanno non la mostrano. Non so quale delle due sia peggio.
Come hanno reagito i colleghi?
Da quando è iniziata la guerra sono stato testimone di una lunga, disgustosa catena di gesti di “lealtà” da parte loro. Ti ritrovi costretto a comunicare, lavorare e parlare con persone che discutono su come colpirebbero con una bomba nucleare Washington DC. Quando facevo notare loro che gli Stati Uniti si sarebbero vendicati, mi rispondevano: “No, non lo farebbero mai, se la farebbero nei pantaloni e ci supplicherebbero per la pace”. Il bivio è tutto qui: puoi perdere il senno come queste persone o puoi preservare una forma di sanità mentale.
Nella lettera ha scritto che l’invasione dell’Ucraina è “un crimine” contro il futuro della Russia. Ci spiega perché?
Facciamo un passo indietro. I ventidue anni di Vladimir Putin al potere sono stati un totale spreco di tempo per la Russia. Con un’ottima congiuntura sui mercati globali, il rialzo dei prezzi di petrolio, gas e altri beni per l’export, un’autorità consolidata sui russi, negli anni 2000 Putin avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa. Avrebbe potuto usare il suo potere, la sua autorevolezza per condurre in porto le tanto attese riforme e spingere sullo sviluppo economico e la costruzione di una società democratica e libera. Sarebbe stato ricordato come il grande leader e uomo di Stato che senza dubbio desidera essere.
E invece?
Invece ha scelto di costruire una dittatura personale per permettere a se stesso e ai suoi amici di godersi miliardi di dollari, palazzi e yacht, opprimendo nel frattempo l’opposizione e privando milioni di persone della speranza di un futuro migliore. Oggi la situazione è diversa. L’economia sta crollando, la gente diventa povera, perde ogni prospettiva. Il sostegno di Putin nella società civile non è solido e inscalfibile come un tempo. Non tutti fra le nuove generazioni sono suoi fan.
Cosa è disposto a fare Putin?
Distruggere chiunque possa resistergli. Per questo migliaia di russi stanno abbandonando il loro Paese. Parliamo del meglio della Russia: persone giovani, istruite, professionisti, creativi. Senza di loro Putin può rimanere al potere con facilità, perché può contare sui gruppi sociali più poveri e ignoranti, resi tali dalle sue politiche e ammaliati dalla sua propaganda.
Cosa teme per il suo Paese?
Putin isolerà la Russia dal mondo, ne farà un Paese più povero e sottosviluppato. La guerra avvicina l’obiettivo, per questo dico che è un crimine contro il futuro dei russi. Senza contare che i nostri rapporti con l’Ucraina, uno dei Paesi confinanti a noi più vicini, saranno persi del tutto per decenni e intere generazioni. Anche questa è una tragedia.
Cosa è successo dopo che ha deciso di condannare la guerra?
Ad oggi, che io sappia, non è successo nulla. Sono molto curioso di sapere cosa succederà.
Ha paura?
No.
C’è ancora spazio per il dissenso fra i ranghi della diplomazia russa?
A dirla tutta, non penso che esista un numero significativo di diplomatici russi pronto ad ergersi contro la guerra. Qualcuno può decidere di abbandonare in silenzio, è già successo. La maggior parte, come ho detto, sceglie la servilità. Chi per fare carriera, chi per altre ragioni. Chi preferisce credere ciecamente a ciò che dice il governo. Tanti, ovviamente, sono spaventati da una possibile rappresaglia.
C’è stato un momento della sua carriera in cui ha capito che la Russia di Putin non sarebbe tornata indietro?
Ci sono stati diversi momenti in cui ho percepito che qualcosa andava nel verso sbagliato. Ma bene o male era la routine quotidiana. Pensavo, mi illudevo che si potesse tollerare. Il 24 febbraio ho capito che non ci sarebbe stata una via di ritorno.
Ci sono colleghi che condividono i suoi pensieri sulla guerra?
Qualcuno, suppongo.
È entrato nella diplomazia russa vent’anni fa. Quanto è cambiata la politica estera di Mosca da quando Putin ha conquistato il Cremlino?
Quando sono entrato Putin era già stato presidente. Ma allora era diverso: la Russia cercava una cooperazione, un reciproco vantaggio con l’Occidente. Non è bastato: non puoi pensare di essere trattato come un Paese europeo se ti costruisci su misura uno Stato mafioso.
A cosa si riferisce?
Evidentemente Putin immaginava che la sua ricchezza lo avrebbe posto sullo stesso piano dei leader europei, pronti a far finta di niente sulla vera natura del suo potere. Si sbagliava. Oggi lui e la sua “élite” sono infuriati, pensano che l’Occidente abbia giocato “sporco”. Curioso quando un baro si ritiene offeso perché nessuno vuole giocarci a carte.
Dove va la Russia oggi?
Sta iniziando un cammino di profonda umiliazione, e lo sta facendo a causa di un uomo che decide da solo per un Paese di 140 milioni di persone, senza nessuno in grado di dirgli no. I pochi che hanno il coraggio di farlo sono morti, in prigione o in esilio. Oggi la Russia non può scegliere niente.
Come è cambiato il sistema di potere russo con Putin?
Ormai l’evoluzione in un regime di stampo fascista è completa. Un regime destinato a diventare sempre più oppressivo all’interno e sempre più belligerante e aggressivo all’esterno. Possiamo solo sperare che qualcosa cambi. Sogno che la Russia costruisca una società nuova, moderna, libera dove ognuno gode di diritti e quei diritti sono protetti. Non sogno così in grande, vero?
Cosa si aspetta dall’Italia e dall’Europa? Cosa possono fare per fermare la guerra?
Smettano di chiamare Putin ogni giorno. Durante la Seconda guerra mondiale Churchill non telefonava a Hitler per convincerlo che era nel torto. Poi realizzino che oggi il regime putiniano è la minaccia numero uno per la sicurezza europea. Non pensate che una volta conquistata l’Ucraina si riterrà soddisfatto.
Andrà avanti?
Senz’altro. Il regime sta perdendo terreno, è meno intatto di quanto sembri. Può apparire che Putin goda di un ampio sostegno popolare ma la verità è che i suoi veri sostenitori, quelli pronti a combattere per lui, sono una minoranza, sia pure rumorosa. Altri sono terrorizzati o semplicemente non hanno idea di chi possa sfidare questo presidente.
Cosa c’entra la guerra?
Putin deve rivendere qualcosa ai suoi sostenitori e al suo inner-circle. Una piccola vittoria in Donbas non sarà sufficiente, ha promesso di conquistare l’intera Ucraina. Avrà sempre più bisogno di “vittorie”. Domani può essere Kiev e l’intero Paese, dopodomani l’annessione della Bielorussia, dopo ancora la Moldavia o perfino i Baltici. Il presidente può solo rivendicare vittorie militari, nient’altro. Per questo, finché rimarrà al potere, la guerra non finirà.
C’è un modo per fermare l’escalation?
L’unico modo per fermarlo è sconfiggerlo sul campo di battaglia. Solo una sconfitta militare, una vera sconfitta, impossibile da nascondere agli occhi dei russi, potrà dare il colpo di grazia alla dittatura.
Perché?
I russi non amano vedere un perdente al potere. È la legge di un branco di lupi ed è la legge con cui Putin guida il Paese. Di fronte a una crisi economica, sanzioni dure e prospettive cupe qualsiasi governo dopo Putin sarà costretto a fermare la guerra e negoziare la pace, volente o nolente.
Poi c’è l’Ucraina, il Paese aggredito.
L’Ucraina deve ottenere tutta l’assistenza che richiede, quando la richiede. Chi si fa avanti con appelli come “diamo a Vladimir quel che vuole e fermiamo la guerra” è davvero un alleato di Putin, forse inconsciamente. L’appeasement non funziona mai. Comprerà alla Russia un po’ di tempo per ricostituirsi e prepararsi a una nuova campagna.
Cosa dovrebbe fare secondo lei l’Occidente?
Rimanere unito e impassibile, senza cercare di scambiare la sua sicurezza e pezzi di territorio ucraino per una “pace” immaginaria che ben presto darà vita a un’altra guerra sanguinaria. Preghiere e persuasioni non fermeranno l’aggressore. Putin capirà solo il linguaggio della forza e della risolutezza. Per dirla semplice: sostenere l’Ucraina significa continuare la guerra. Ma se l’Ucraina cadrà, la guerra non finirà. E ci saranno altre vittime.
Ha un appello finale per i suoi colleghi?
Li inviterei a pensare con la loro testa, ma sono uomini e donne cresciuti e ormai dovrebbero aver capito. Spero davvero che lo facciano.