Parte da lontano e presenta prospettive incerte la complessa crisi politica che rischia di logorare la tradizionale saldezza istituzionale britannica. L’analisi di Gianfranco D’Anna
L’avvitamento della crisi politica inglese che ha determinato le convulse dimissioni del primo ministro Boris Johnson, dai più considerato un premier per caso, parte da lontano e si può considerare l’effetto dell’onda lunga della Brexit. A sei anni dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il Regno Unito ha un deficit della bilancia commerciale a livelli record, mentre l’inflazione che sfiora il 9 % annuo incrina la stabilità della Sterlina e falcidia il reddito dei cittadini britannici che dal 2016 ha registrato, secondo i dati Ocse, una perdita pro capite di 4.520 sterline (quasi 5.500 euro). La più alta rispetto alla media dei 19 Paesi dell’eurozona.
In questo contesto di grave crisi socio economica con un’ondata di scioperi a tappeto, si inserisce la crisi parallela intanto di credibilità e poi di efficienza del Governo Johnson, che ha aggravato i già pesanti bilanci della crisi del coronavirus e poi quella energetica scatenata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin. Con prospettive ritenute pessime: “l’inflazione avrà effetti peggiori e più prolungati nel Regno Unito rispetto ad altri Paesi, tanto che a breve potrebbe addirittura sfondare quota +11%. E anche l’economia crescerà di meno”, ha affermato il governatore della Bank Of England, Andrew Bailey.
Invece di fronteggiare la situazione, Johnson ha dovuto giustificare all’interno del partito conservatore e al cospetto del Parlamento inglese vari comportamenti privati spesso abbondantemente al limite, se non della decenza, quanto meno dell’opportunità politica. Logorato dagli scandali e messo alle corde da una clamorosa serie di dimissioni a catena di ministri e componenti del governo, Johnson si è alla fine dimesso da leader conservatore e sta tentando un’ultima disperata resistenza per rimanere a fino all’autunno a Downing Street con l’intenzione dichiarata di condizionare o addirittura ribaltare l’esito del dibattito interno per la scelta del nuovo leader che diventerà automaticamente primo ministro.
Una scelta al limite della prassi parlamentare inglese, carica d’incognite e la cui tenuta resta tutta da verificare, giustificata anche con la pausa estiva della Camera dei Comuni che scatta fra due settimane, ma che viene unanimemente condannata dalla stampa e dall’opinione pubblica britannica e che secondo i commentatori è destinata ad aggravare ulteriormente la già evidente perdita di consensi e di voti per i conservatori. Un interregno che gli esponenti dello stesso partito Tory giudicano insostenibile.
Tra i papabili alla successione ci sarebbero il Cancelliere dello Scacchiere Nadhim Zahawi, la ministra degli Esteri Liz Truss, il Procuratore generale di sua Maestà, Suella Braverman, la ministra dell’Interno Priti Patel e Sajid Javid, fino all’altro ieri ministro della Salute. Un altro esponente Tory che ha reso noto che correrà per la leadership è Steve Baker. Cosi come viene considerato in corsa l’ex ministro degli Esteri ed ex ministro per la Brexit Raab. Appare invece per ora escluso un terzo scenario: quello dello scioglimento della Camera dei Comuni e delle elezioni anticipate.
Prerogativa che la legge britannica assegna al premier, ma con l’ obbligo della controfirma della sovrana. Una mossa che metterebbe in grave imbarazzo la Regina Elisabetta II che dopo aver visto alternarsi nel suo lungo regno ben 14 primi ministri, verrebbe forzata a scegliere se assecondare come la prassi impone i desiderata di un capo di governo non più sostenuto dalla sua stessa maggioranza o sbarrargli il passo con un diniego e un atto politico estraneo alla tradizione della monarchia costituzionale britannica. Nel ricorso scaramantico ai tradizionali versi di Rule Britannia non c’è dubbio che fra Johnson e la Regina Elisabetta gli inglesi esclamerebbero all’unisono God save the Queen!