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Gualtieri osi un po’ di più per salvare Roma. Scrive Polillo

La credibilità di una città si giudica dalla sua capacità di utilizzare al meglio le risorse disponibili. Che a Roma sono ancora tante, ma scarsamente impiegate. Purtroppo l’amministrazione capitolina, in questi ultimi trent’anni, è stata una grande palla al piede della città. L’analisi di Gianfranco Polillo

Roberto Gualtieri è diventato sindaco di Roma lo scorso 31 ottobre. Da allora sono passati più di nove mesi. Quanto ci vuole per mettere al mondo una creatura. Ma quel parto, nella Città Eterna, ancora non si è visto. Al contrario la maledizione di Virginia Raggi domina le strade ed i rioni di una delle più belle città del mondo. Che è rimasta tale, nonostante l’attività dei “moderni”: di quei sindaci che, salvo poche eccezioni, hanno contribuito ad alimentare un declino senza fine.

Andando a ritroso nel tempo, il Palazzo Senatorio, che sorge in cima al Campidoglio, è stato abitato da ogni genere di etnia politica. Di Virginia Raggi si è già detto. Prima di lei, per qualche mese soltanto, il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, che aveva preso il posto del decapitato Ignazio Marino, cacciato in malo modo dai suoi stessi compagni di partito. Prima ancora era stata la volta di Gianni Alemanno, esponente di spicco della destra sociale italiana, ed ex ministro delle politiche agricole e forestali nel governo Berlusconi.

Era stato preceduto dal prefetto Mario Morcone, che aveva dovuto sostituire Walter Veltroni, candidatosi alle elezioni politiche del 2008, per cui la sua seconda sindacatura era durata appena due anni. In compenso la prima, dal 2001 al 2006, aveva consentito al giovane sindaco di completare la sua esperienza. Esperienza – ironia della sorte – a sua volta nata a seguito di un’altra interruzione: quella gestita dal prefetto Enzo Mosino.

In questo caso, resasi necessaria per consentite al Francesco Rutelli, ch’era stato sindaco di Roma dal 2001 (due tornate elettorali) di candidarsi, nel 2001, alla testa dello schieramento di centro-sinistra, nel tentativo di battere Silvio Berlusconi. Insomma, nel caso di Roma, noblesse oblige. Come avvenuto del resto in altre grandi capitali, come Parigi o più recentemente Londra, Palazzo Chigi è ben visibile dal colle del Campidoglio.

Che poi tutto ciò abbia portato del bene alla città è cosa tutta da dimostrare. Anzi la sensazione è del tutto opposta. Legami troppo stretti generano antipatie da parte di quell’Italia, da sempre poco disposta a concedersi ad una retorica patriottarda. Mai dimenticare il grido di dolore di Antonio Cederna: Capitale corrotta, Stato infetto. Ed era solo il 1956. A distanza di anni quell’invettiva si era trasformata in Roma ladrona.

Nei trent’anni che sono alle nostre spalle, non sono stati poi molti i sindaci costretti ad occuparsi della città: solo 9, contro il doppio dei trent’anni precedenti. Eppure la sensazione che i progressi siano stati di gran lunga inferiori alle attese è difficile da rimuovere. Con un corollario inquietante: se su quel terreno hanno fallito tutte le culture politiche italiane, forse la spiegazione del fenomeno va ricercata altrove. Anche se, si deve subito aggiungere, che con Rutelli e Veltroni le cose erano andate diversamente. Ma quello era il tempo dei “cacicchi” per riprendere il garbo di Massimo D’Alema. I soldi erano sempre pochi, ma si poteva fare debito.

Lasciamo perdere lo status di capitale, che da sola dovrebbe comportare per Roma la disponibilità di una maggiore dotazione finanziaria. Limitiamoci alla semplice fisicità. Secondo l’ultimo Dup (Documento unico di programmazione), predisposto dalle singole amministrazioni comunali a corredo dei propri bilanci, si evince che la superficie amministrata da Palazzo Marino, a Milano è di 181,8 Kmq. Per il Campidoglio, invece quella stessa latitudine è pari a 1.287,0 Kmq. Un rapporto pari ad oltre 7 volte.

I romani residenti sono, a loro volta, 2.822.981. I milanesi: 1.395.274. Il rapporto, in questo caso è pari a due volte tanto. Altri parametri: le strade amministrate sono pari a 1.683 Km nel capoluogo lombardo, ad oltre 8.000 in quello del Lazio. Anche in questo caso il rapporto è debordante: 4,75 volte. Il verde pubblico – altro grande cruccio della Città eterna – ha una dimensione di più di 48 milioni di mq. In quel di Milano non arriva ai 25. Il rapporto, rispetto agli altri parametri si riduce. Ma è pur sempre una distanza pari ad oltre il 90 per ceto.
Dove portano questi confronti?

A dire che in un qualsivoglia “Paese normale” a realtà così diverse, dal punto di vista quantitativo, avrebbe dovuto corrispondere una dotazione finanziaria adeguata. Il bilancio di Roma, in altri termini, al di là del suo essere la Capitale d’Italia, avrebbe dovuto possedere una dote corrispondente alla dimensione dei problemi da affrontare. E invece la lettura dei due consuntivi (Milano – Roma) per l’esercizio 2021, ma il dato è storico, mostra una realtà ben diversa. Nel primo caso (Milano), le entrate complessive, al netto delle partite di giro, sono state pari a poco più di 6 miliardi. Quelle di Roma a 6,4: con una differenza di appena il 6,8 per cento.

Più o meno un pugno di euro per far fronte ad una superficie che è 7 volte tanto, una popolazione che è il doppio ed una lunghezza delle sole strade di quasi 5 volte. Di fronte a questi dati, il giudizio sui passati sindaci deve essere in parte rivisto. Sono stati degli eroi a candidarsi per gestire una città che, in queste condizioni, non può essere gestita. Sono stati degli incoscienti nel non aver posto all’attenzione del governo centrale con la necessaria fermezza, fino a giungere alle dimissioni, il tema di questo “grande squilibrio”.

Le ragioni di quest’evidente anomalia possono essere le più varie: compresa l’idea che, comunque il Campidoglio, era solo un trampolino di lancio verso un più radioso avvenire. Ma al di là di questo, il fatto che si trattava, per lo più di esponenti provenienti dal mondo politico. Il cui presunto “primato” non richiedeva particolari virtù o specifiche preparazioni. Senza necessariamente arrivare all’”uno vale uno”. Tradizione che non sembra essere mutata.

Roberto Gualtieri è un vecchio militante comunista. Aveva solo 19 anni quando faceva parte della Fgci. Una lunga carriera che lo ha portato a svolgere ruoli diversi, mantenendo alta la sua passione per la storia. Fino a divenire, l’intellettuale organico destinato a ricoprire il posto di vice direttore dell’Istituto Gramsci. Il suo apporto, almeno a giudizio di chi scrive, è stato discontinuo. Ha fatto molto bene come deputato europeo e Presidente della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo.

Discutibile invece il suo mandato come ministro dell’economia. A settembre del 2019, quando varcò la soglia di Via XX Settembre, la spesa pubblica italiana, al netto di quella degli interessi, era pari al 43,8 per cento del Pil. Nel momento delle consegne a Daniele Franco, nel febbraio 21, era salita al 51,3 per cento. Ed il deficit si era mosso di conseguenza: dal 3,1 al 12,8 del Pil. A ovvia giustificazione, il dramma del Covid-19. Se non fosse apparso evidente il suo atteggiamento più che condiscendente verso i 5 stelle, ma soprattutto nei confronti di Giuseppe Conte.

Comunque sia questo retroterra non aiuta. Roma ha bisogno di un sindaco – manager, più che di un intellettuale della Magna Grecia. Senza offesa per il compianto Ciriaco De Mita. Puntare sul termovalorizzatore va bene, ma Roma non è in grado di reggere per altri 3 anni nelle condizioni immonde in cui è costretta a vivere. Anche perché la data del 2025, quando l’impianto verrà alla luce, è ancora solo sulla carta. Difficile, quindi, dar torto a Guido Crosetto quando dice che “Roma è peggiorata”.

Anche rispetto alla gestione di Virginia Raggi. La credibilità di una città si giudica dalla sua capacità di utilizzare al meglio le risorse disponibili. Che a Roma sono ancora tante, ma scarsamente impiegate. Purtroppo l’Amministrazione capitolina, in questi ultimi trent’anni, è stata una grande palla al piede della città. Non ha trovato persone in grado di riorganizzarne le strutture per metterle in sintonia con i propri cittadini, ma soprattutto con il resto del Paese. Al quale sarà giusto chiedere più risorse, ma solo dopo aver dimostrato di aver fatto il possibile per camminare con le proprie gambe. Gualtieri conosce bene il mondo di Bruxelles e l’uso dei relativi protocolli. Provi ad applicarli alla sua amministrazione e “vedere l’effetto che fa”.


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