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Difendere la libertà e lavorare per la pace. La missione per le democrazie

A 70 anni di distanza dalla fine della Seconda guerra mondiale, in un contesto di tendenziale bipolarismo Stati Uniti-Cina, il dilemma libertà e/o pace condiziona nuovamente l’opinione pubblica a livello nazionale e internazionale. L’assenza di conflitti armati tra Paesi liberi è la prova inconfutabile che si tratta di valori pienamente compatibili. Il commento di Marco Mayer

Durante gli anni del bipolarismo Stati Uniti-Unione Sovietica la comunità intellettuale si è divisa in nome di due parole chiave: libertà e pace.

Il termine e il concetto di libertà (nei suoi molteplici significati) rappresentavano la stella popolare per gli studiosi che sostenevano i valori della democrazia politica e dello stato di diritto. Quelli di pace (con le sue numerose implicazioni in termini di politica estera e difesa) erano viceversa “monopolizzati” dagli intellettuali più vicini all’Unione Sovietica. Questa distinzione – che ho volutamente schematizzato – ha animato la discussione intellettuale nell’immediato secondo dopoguerra e negli anni successivi.

Dal 1950 al 1966 Il Congresso per la libertà della cultura promosso dagli Stati Uniti ha coinvolto intellettuali di primo piano come Raymond Aron, Isaiah Berlin, Hannah Arendt, solo per citarne alcuni. L’attività del Congresso ha tuttavia perso la sua funzione propulsiva nell’aprile del 1966 quando il New York Times ha rivelato che una quota consistente del fondi proveniva dalla CIA e il direttore dell’organizzazione era un ex ufficiale collegato con i servizi statunitensi. La rivelazione fece all’epoca grande scalpore anche se le posizioni degli intellettuali coinvolti (tutti ignari) erano state espresse in totale libertà.

Aron e Berlin, cosi come gli altri partecipanti, protestarono vivacemente e la vicenda incrinò le relazioni degli Stati Uniti con gli intellettuali di mezzo mondo (e con quelli europei in particolare). Fu una fine ingloriosa, o meglio un boomerang assurdo, perché per svolgere questo tipo di attività di soft power e di public diplomacy gli Stati Uniti avrebbero potuto dotarsi di istituti culturali all’estero (come il British Council). Ma pare che il Congresso si fosse opposto al loro finanziamento.

Nel 1961, con la finalità di promuovere la libertà di pensiero una proposta arrivò anche dall’Italia. Ugo La Malfa e Altiero Spinelli (insieme ad alcuni esponenti del Mulino di Bologna) sottoposero al presidente John Fitzgerald Kennedy un progetto molto interessante e dettagliato per la costituzione del Congresso mondiale per la libertà e la democrazia che tuttavia non ebbe seguito.

L’attenzione americana al tema della libertà della cultura fu la reazione diretta a un’iniziativa sovietica di notevole successo come la creazione del World Peace Council e alle sue numerose componenti. La più famosa è l’organizzazione dei Partigiani della pace che ebbe origine per volontà di Iosif Stalin. Nella sua fase embrionale il movimento pacifista, ispirato da Mosca, riuscì a coinvolgere personalità eminenti basti pensare a scienziati come Albert Einstein o artisti come Pablo Picasso.

Nella prima fase del dopoguerra solo gli Stati Uniti erano dotati della bomba atomica e questo ha sicuramente inciso sul fatto che i sovietici hanno fatto leva su una narrativa concentrata sulla pace. La contrapposizione tra i valori della libertà e i valori della pace ripropone un dilemma di grande attualità dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

A 70 anni distanza (nel nuovo contesto di un tendenziale bipolarismo Stati Uniti-Cina) il dilemma libertà e/o pace condiziona nuovamente l’opinione pubblica a livello nazionale e internazionale.

Da una parte c’è chi difende la libertà dell’Ucraina di intraprendere il suo percorso verso la democrazia e in questo modo intende sbarrare la strada ad altre avventure militari di Vladimir Putin. Dall’altra parte c’e chi, invece, in nome della pace e dei rischi di escalation, appare più accomodante nei confronti del Cremlino. Per inciso proprio sui timori di allargamento del conflitto si fonda la strategia di disinformazione promossa dal Cremlino.

Gli Stati Uniti hanno imparato in Iraq quanto fallimentare e impopolare fosse l’idea di esportare la democrazia con le armi. Nel 2003 milioni e milioni di bandiere della pace sventolavano sui balconi delle città europee.

Contro l’invasione russa dell’Ucraina ci sono iniziative di solidarietà, ma niente di paragonabile. Perché? Possiamo mettere in conto un anti-americanismo endemico nel nostro continente, ma non penso che questo fattore sia quello decisivo.

Negli ultimi 20 anni (dall’Iraq in poi) l’immagine degli Stati Uniti nel mondo ha perso smalto. Una serie di errori delle amministrazioni (Trump in testa, ma anche Obama e Bush jr.) hanno dissolto il clima di vicinanza e simpatia che si era manifestato subito dopo l’attentato terroristico alle Torri Gemelle. Non è un caso che quando i servizi segreti statunitensi hanno previsto con un buon anticipo l’invasione russa in Ucraina non ci ha creduto nessuno, Volodymyr Zelensky compreso.

Putin sbaglia, non da oggi, ma da più di 20 anni è finita la breve stagione unipolare dell’egemonia americana. Non siamo più negli anni Novanta del XX secolo.

Oggi tocca a tutti i Paesi della Nato e dell’Unione europea difendere la libertà e lavorare per la pace. Non possiamo più fare gli struzzi e passare il cerino agli americani come è avvenuto per le guerre dei Balcani, in Bosnia e in Kosovo in particolare.

L’opinione pubblica europea non ha ancora percepito la missione politica che la storia affida ai Paesi europei: difendere la libertà e la pace.

Ma dobbiamo dire le cose come stanno: l’Unione europea potrà e dovrà avere un ruolo propulsivo, ma è illusorio che essa possa agire da sola (come troppi credono, o hanno interesse a far credere) sia sul piano politico che quello militare. Una solida alleanza tra Stati Uniti, Nato e Unione europea è il presupposto indispensabile, ma decisivo è anche il contributo di grandi democrazie asiatiche quali l’India e il Giappone.

Una certa retorica pacifista sull’Ucraina si fonda su un’auto-colpevolizzazione dei Paesi democratici che arriva al punto di negare la realtà dei fatti. Chi nega o minimizza le responsabilità di Putin non si domanda neppure perché Paesi tradizionalmente pacifici e neutrali come Svezia e Finlandia hanno deciso di aderire alla Nato. Ma l’afasia più grave è a mio avviso un’altra. Nessuno parla mai di un dato incontrovertibile: qual è la vera pratica della pace.

È dimostrato che gli Stati democratici non si fanno la guerra tra di loro. Dopo cinque secoli di guerre fratricide, l’Unione europea è uno degli esempi più importanti della teoria della pace democratica, la teoria che afferma che le democrazie competono sul piano economico e tecnologico, ma non si scontrano sul piano militare.

L’assenza di conflitti armati tra Paesi liberi è la prova inconfutabile che pace e libertà sono valori pienamente compatibili anche se la propaganda di Mosca e Pechino fa di tutto per mascherare e nascondere questa fondamentale evidenza empirica.

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