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Buone e cattive politiche del lavoro. Il punto di Polillo

Sono buone quelle politiche che riescono a legare aumento dei livelli dell’occupazione e crescita del salario allo sviluppo della sottostante produttività. Sono invece negative quelle politiche che spezzano quel legame. Dando immediatamente luogo al dilemma del relativo finanziamento. Da questo punto di vista, l’idea del Reddito di cittadinanza è stata pessima…

Non é solo l’aumento del debito pubblico che, a seconda delle circostanze, può essere buono o cattivo. L’ormai celebre distinzione, fatta da Mario Draghi: “Ciò che rende il debito buono, o cattivo, – aveva ulteriormente precisato in un intervento circa un anno fa all’Accademia dei Lincei – è l’uso che si fa delle risorse impiegate. Questa distinzione è particolarmente importante in una fase di transizione come quella attuale, in cui possono essere più marcate le differenze di produttività tra i progetti in cui è possibile investire”.

Dove il discrimine è dato, appunto, dal concetto “differenze di produttività”. Concetto che non va mai abbandonato, anche quando si parla di politiche attive per il lavoro. Politiche, cioè, rivolte sia ad accrescere i livelli di occupazione che a garantire un salario che sia degno dei livelli di civiltà complessivi raggiunti da un determinato Paese. Anche da questo punto di vista esistono, pertanto, politiche del lavoro buone e politiche cattive.

Sono buone quelle politiche che riescono a legare aumento dei livelli dell’occupazione e crescita del salario allo sviluppo della sottostante produttività. Sono buone perché si ripagano da sole. Producono un output maggiore e quindi consentono di sostenere il peso che potrebbe derivare, per l’intero sistema economico, dal maggior consumo potenziale dovuto alla crescita dei salari o dell’occupazione. Sono invece negative quelle politiche che spezzano quel legame. Dando immediatamente luogo al dilemma del relativo finanziamento: aumento della spesa pubblica, riduzione del prelievo fiscale, maggiore indebitamento pubblico. O alternativamente compressione degli investimenti privati.

Da questo punto di vista, l’idea del Reddito di cittadinanza è stata pessima. Giustificato malamente come una misura necessaria per garantire l’avvio al lavoro, si è trasformato in un semplice sussidio che ha ridotto l’offerta di lavoro, determinando contrazione dell’output e la necessità di finanziamenti in deficit per la relativa copertura.

Più specifico il caso di una politica salariale che punti, in una fase di forte inflazione, a tutelare il potere d’acquisto dei salari. Soprattutto di quelli più bassi per combattere fenomeni di sopravvenuta povertà relativa. In questa circostanza l’attenuazione del nesso “salario-produttività” è pienamente giustificato. Ma ad una condizione, che gli eventuali maggiori oneri siano interamente compensati: da una riduzione dei livelli di rendimento del capitale investito dai privati, o da contributi di varia natura a carico del bilancio dello Stato. Anch’essi regolarmente coperti.

L’esatto contrario di quel “riteniamo sia necessario un ulteriore scostamento di bilancio” pronunciato dalla vice segretaria generale della Cgil, Gianna Fracassi, nel corso della audizione presso le Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato in merito all’esame del Documento di economia e finanza 2022. Fatta propria da Giuseppe Conte, nella sua lettera di 9 punti consegnata al presidente Draghi.

La Cgil, giustamente, insiste da tempo sulla compressione in Italia dei livelli salariali. Secondo Nicolò Giangrande, della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, “tra il 2000 e il 2019, i salari medi annuali lordi italiani – a prezzi costanti del 2019 – sono cresciuti di +3,1% mentre in Germania e Francia sono aumentati, rispettivamente, di +18,4% e di +21,4%”. Uno squilibrio evidente.

Nessuna parola, invece, sui sottostanti livelli di produttività, individuati secondo le procedure europee dell’Alert Mechanism Report 2022. Nel periodo 2011-2020 la produttività del lavoro in termini reali, in Germania sarebbe aumentata del 1,7 per cento, mentre in Francia e in Italia sarebbe diminuita rispettivamente del 1,1 e del 9 per cento. Il che spiegherebbe, almeno in parte, quei primi barlumi di “stagnazione secolare” che hanno inchiodato i salari italiani.

Solo in parte: si diceva. Un contributo determinante al contenimento salariale è derivato soprattutto dalle politiche economiche seguite alle due crisi: quella dei subprime, e poi dei debiti sovrani. La scelta è stata soprattutto quella di deflazionare le principali economie dell’Eurozona. Per la Germania non è stata una novità. Essendo la “frugalità” l’essenza stessa di quelle politiche, ancor prima dell’unificazione nazionale.

La Francia invece, con il suo “colbertismo”, ha cercato di barcamenarsi, dando maggiore spazio alla sua domanda interna, seppure limata da un eccesso di carico fiscale: il più alto dell’Eurozona. Lo dimostra il forte peso del suo debito estero, conseguente soprattutto il deficit strutturale delle partite correnti della bilancia dei pagamenti: pari, in media, nel periodo 2010/2021, al 18 per cento del Pil.

Completamente diverso il caso italiano. Nel 2012 i suoi debiti con l’estero, in analogia con il caso francese, erano pari al 20,1 per cento. Poi la forte compressione della domanda interna, riflesso della stagnazione salariale, ha progressivamente ridotto quel debito che, dal 2020 si é trasformato in un credito a favore dell’estero per un valore pari al 7,4 per cento del Pil.

In valore assoluto, alla fine dello scorso anno, l’Italia si era trasformata nel quarto Paese creditore dell’Eurozona, con un’esposizione pari a poco più di 132 miliardi di euro. Nulla a che vedere, comunque, con i valori tedeschi: quasi 2.500 miliardi; olandesi 796 o belgi 289. Comunque significativi per un Paese ridotto nelle precarie condizioni sociali da tutti conosciute.

Purtroppo la crisi, indotta dall’invasione russa dell’Ucraina, ha già inciso sul quadro macroeconomico dei singoli Paesi. Nel primo trimestre dell’anno la situazione è leggermente migliorata in Francia (riduzione del debito di 0,4 punti) ed in Germania (aumento dei crediti esteri di 2,1 punti di Pil), mentre in Italia la flessione è stata più consistente, con una caduta dei crediti dal 7,4 al 6,5 per cento del Pil.

Se fossimo all’interno di uno schema di carattere Keynesiano, quel valore (6,5 per cento del Pil), corrispondente a poco più di 115 miliardi di euro, ci darebbe il margine per possibili politiche espansive. Portate avanti, tuttavia, nel rispetto dei criteri enunciati in precedenza. Ricercando i moltiplicatori fiscali più idonei per finanziare una maggiore spesa, destinata ad alleviare il disagio sociale e dare al Paese quel minimo di speranza, che è il principale ingrediente di una possibile ripresa.

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