Gennaro Malgieri commenta la nuova edizione di “Sociologia del partito politico” di Roberto Michels, con introduzione di Gennaro Sangiuliano. Il sociologo tedesco, naturalizzato italiano, sperava sempre nel meglio, ma oggi molto è cambiato: i partiti hanno occupato l’occupabile; non sono le élites a guidarli, ma approssimativi mercanti della politica
Curioso destino quello di Roberto Michels (1878-1936). La straordinaria fortuna della sua opera più importante, Sociologia del partito politico, ha compresso tutti gli altri aspetti del suo fecondo pensiero limitandone in qualche modo la comprensione. Se è vero che nel campo della sociologia Michels è stato un innovatore ed un maestro, è altrettanto vero che a tale scienza egli è pervenuto attraverso un itinerario politico nel quale il «momento» sindacalista-rivoluzionario è stato decisivo.
Grave torto gli si è fatto, dunque, quando si è sorvolato sulla sua esperienza sindacale, concludendo in maniera assai approssimativa che il suo distacco dal socialismo era quello tipico di un «democratico deluso», anzi di un «ademocratico», liquidando così un travaglio teorico e politico che sarebbe stato il fondamento dei suoi stessi studi sociologici.
Aveva ragione Carlo Curcio nell’osservare che a Michels era accaduto ciò che normalmente accade agli autori di opere molto fortunate, restare cioè schiacciato sotto il peso della fama del suo lavoro più celebre. Le origini del Michels sociologo della politica, autore di un «classico» come la Sociologia del partito politico, che dopo anni rivede la luce grazie a Oaks Editrice (pp.544, € 38), con una sontuosa introduzione di Gennaro Sangiuliano, vanno ricercate nella sua militanza socialista prima e sindacalista poi (anche se nel secondo caso fu una militanza tutta intellettuale).
Le sue riflessioni sociologiche nascevano dall’osservazione del partito politico per eccellenza di quei tempi, il partito socialista e dai mutamenti che in esso intervenivano e dalle componenti culturali che lo attraversavano. Michels più che un «rivoluzionario», dunque, è stato soprattutto un analista del movimento operaio, un osservatore che al momento opportuno non mancava di far sentire il suo peso di teorico tutt’altro che distaccato dalle vicende travagliatissime del mondo socialista.
Mostrando fin dall’adolescenza uno spiccato interesse alla «questione sociale», Michels aderì giovanissimo alla socialdemocrazia. I motivi che lo portarono ad imboccare una strada sostanzialmente opposta a quella della famiglia di ceto alto-borghese, furono di carattere prevalentemente morale che si estrinsecarono in un «riformismo pratico» che, per effetto del rapporto del giovane studioso con Bebel e Lagardelle, venne presto abbandonato.
Nella biografia di Michels vi sono alcune date particolarmente significative. Tra il 1900 ed il 1901 soggiornò per alcuni mesi in Italia innamorandosi perdutamente del nostro Paese al punto di intraprendere una certa attività politica nelle file del Psi. Dal 1902 al 1907 svolse un’intensa attività nella socialdemocrazia tedesca, sia pure sul piano intellettuale.
Dal 1908 al 1913 insegnò economia politica a Torino e nel 1911 vide la luce il libro che contiene la summa delle sue considerazioni sollecitate dalla breve, ma intensa militanza politica nelle file del socialismo: la Sociologia del partito politico che l’anno successivo uscì in traduzione italiana. Del 1913 è il suo atto d’amore più grande nei confronti dell’Italia: la rinuncia alla cittadinanza tedesca e la richiesta di quella italiana che a causa del sopraggiungere della guerra gli verrà concessa solo nel 1920.
Si può dire che nella vita di Michels tutto accadde nei primi quindici anni di questo secolo. L’anno «cruciale», comunque, fu il 1907, non solo perché tornò in Italia per stabilirvisi definitivamente, ma soprattutto perché si precisò la sua scelta politica, esplose l’insofferenza nei confronti del riformismo socialista. In altre parole si fece strada in lui la convinzione che alla classe operaia soltanto la possibilità rivoluzionaria era data per riscattarsi dalle condizioni di subalternità sociale nella quale si trovava.
Come s’è detto, Michels fin dai primi scritti riservò all’osservazione della composizione del partito politico una speciale attenzione, come si evince dalla Sociologia del partito politico. La sua descrizione della socialdemocrazia tedesca negli anni Dieci rimane ancora oggi particolarmente significativa come rappresentazione di un partito politico «classico» sul cui modello si sarebbero di lì a poco «costruiti» partiti di massa. In questa osservazione è già in nuce l’esplicitazione degli elementi della grande teorica sociologica che Michels all’epoca evitò di approfondire preferendo lavorare sull’«essenza» delle classi antagoniste al fine di precisare, forse inconsciamente, la sua stessa strada politica.
Nel 1908, infatti, pubblicò Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano che coincise con la rottura definitiva con il Psi e segnò il «passaggio» al sindacalismo rivoluzionario. Michels in quest’opera alcuni timidi riferimenti alla teoria che più tardi l’avrebbe consacrato come uno dei padri della moderna sociologia politica: – «la ferrea legge delle oligarchie».
«I partiti moderni – scriveva – non sono che soprastrutture sintomatiche della costituzione economico-sociale della nostra società. Ogni classe sociale si crea autonoma la propria rappresentanza politica, cioè il proprio partito». Aggiungendo nei sui studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici come i partiti, persino quelli socialisti più estremi, siano destinati a trasformarsi rapidamente in burocrazie oligarchiche. Le quali sono destinate a scontri cruenti che modificano gli assetti democratici.
Nell’opera maggiore, oltre che in altri scritti, Michels si soffermava non solo sul problema della rappresentanza politica, ma anche sul rapporto tra la massa ed i capi, preferibilmente intellettuali. Nell’ultima parte, per esempio, de Il proletariato e la borghesia, esponeva la sua concezione sindacalista che avrebbe influenzato parte del movimento nei suoi sviluppi nazionalisti.
Il sindacalismo rivoluzionario si configurava in Michels come una corrente intransigente ed idealista all’interno del movimento socialista il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di elevare le masse alla coscienza della loro missione di classe. In altri termini, Michels non credeva che il solo fatto di appartenere socialmente al proletariato conferisse alle masse, automaticamente, la «coscienza di classe», ma, al contrario, riteneva che la maturazione politica, morale, rivoluzionaria dei lavoratori dovesse essere conseguenza dell’azione educatrice di una minoranza di rivoluzionari di professione.
La massa, per Michels, dunque, non era elemento sufficiente, ancorché necessario, per il rinnovamento sociale. Senza l’intervento di dirigenti capaci, animati da «grandi idee», l’élite rivoluzionaria insomma, la massa proletaria sarebbe stata incapace di svolgere qualsiasi ruolo.
Questi passi trasudano avversione per la democrazia parlamentare, il “regno dell’incompetenza”, come diceva lo stesso Michels, e testimoniano dell’influenza decisiva di Georges Sorel sul giovane studioso. Non a caso Michels concludeva la sua opera maggiore negando la transitorietà dell’immaturità della massa: «Essa è invece insita nella natura stessa della massa in quanto tale, che è amorfa e bisognosa di una divisione del lavoro, di specializzazione e di direzione e che, anche se organizzata, è incapace di risolvere tutti i problemi che l’affliggono».
Michels, dunque, auspicava l’avvento di un’aristocrazia rivoluzionaria ideale caratterizzata oltre che dalle qualità «tradizionali», anche dalle capacità tecniche richieste dalla modernità. In questo senso giustificava ed appoggiava pienamente l’atteggiamento antiparlamentare dei sindacalisti rivoluzionari, «sia in quanto muovano guerra inesorabile al gruppo parlamentare del Partito, quasi unicamente composto di riformisti, sia in linea di principio, in quanto si sforzano energicamente di spostare il centro di gravità del movimento operaio; il quale finora fu nella azione principalmente parlamentare del Partito, in vista dei loro fini rivoluzionari, nella massa proletaria costituita in leghe economiche. Vogliono dunque una vigorosa azione antiparlamentare entro i limiti del Partito stesso».
Sempre dall’osservazione e dall’analisi del movimento operaio, Michels derivava la sua critica al marxismo del quale rilevava le insufficienze nella poco chiara visione della psicologia delle masse che manifestava e nella sua incapacità di concepire una vera organizzazione rivoluzionaria. Soprattutto rimproverava al marxismo la totale assenza di eticità: i marxisti, sosteneva, hanno cercato di ridurre l’uomo ad un concetto puramente «scientifico», senza neppure sospettare che egli è innanzitutto un prodotto culturale animato da un sentimento morale. Tanto le masse, quanto i capi, aggiungeva, senza un fine morale da perseguire sono destinati a soccombere sotto la furia degli interessi.
«Michels – ha osservato al riguardo lo studioso americano dell’ideologia del fascismo James A. Gregor – sosteneva che il marxismo classico era incapace di render conto dei comportamenti umani individuali e collettivi e che qualsiasi teoria insufficiente al proposito non poteva essere considerata valida a fini esplicativi e di previsione, né poteva servire come guida per rivoluzionari impegnati nell’organizzazione rivoluzionaria di un gran numero di individui. Il giudizio di Michels, come quello dei sindacalisti del suo tempo, era influenzato dalle opere di scrittori della statura di un Gabriel Trade, di un Gustav Le Bon, di uno Scipio Sighele ed anche di un Vilfredo Pareto. Tutti avevano sostenuto che gli uomini possono essere messi in moto soltanto da richiami a interessi “ideali”, ben diversi da quelli puramente materiali. I sindacalisti, e Michels con loro, sostenevano inoltre che qualsiasi perseguimento di interessi puramente materiali porta necessariamente alla divisione».
Ulteriore tema d’incontro tra Michels ed i sindacalisti rivoluzionari era il sentimento nazionale. Lo studioso percepì per tempo, fin dal 1903, l’importanza dello spirito di gruppo, dell’organizzazione della comunità nello svolgimento storico della vicenda umana e tentò di conciliare tale istanza con l’internazionalismo socialista. Quest’ultimo, per affermare la sua validità, sosteneva Michels, deve prevedere una collocazione anche al sentimento di gruppo espresso dal nazionalismo. Trascurare il sentimento nazionale, sottolineava, significa inibirsi la soluzione dei moderni problemi sociali.
«In un momento in cui i socialisti avevano fatto un feticcio del loro antinazionalismo e del loro “internazionalismo proletario” – ha osservato ancora Gregor – Michels ricordava loro che il socialismo aveva in sé una lunga tradizione di nazionalismo. Ricordava loro il “socialismo patriottico” dello sfortunato Carlo Pisacane. Ricordava loro il patriottismo dei comunardi. Benché i socialisti italiani avessero fatto della loro rinuncia al sentimento nazionale un puntiglio politico, li invitava a ricordare che Pisacane e i primi rivoluzionari italiani avevano sempre unito nazionalismo e socialismo nel sentimento degli italiani».
Al socialismo nazionale Michels dedicò il volume L’imperialismo italiano, sull’impresa libica del 1911, nel quale difendeva le ragioni dell’«imperialismo proletario dell’Italia». Come s’è già accennato, pur avendo intimamente aderito alle tematiche sindacaliste rivoluzionarie, scarsa fu l’influenza più immediatamente politica esercitata da Michels sul movimento. Egli collaborò attivamente ai giornali del sindacalismo rivoluzionario, come «La Lupa» di Paolo Orano per esempio, ma si tenne piuttosto distaccato dal piano dell’azione militante. Michels fu essenzialmente un osservatore degli svolgimenti del movimento operaio e delle tendenze rivoluzionarie degli inizi del secolo che seppe descrivere ed interpretare con grande intelligenza fino a prevedere gli esiti della lotta politica sviluppatasi in Italia negli anni Dieci.
«Il sindacalismo rivoluzionario sarà la spina dorsale del socialismo», scrisse nel 1905 su «La lotta proletaria». Ebbe ragione a metà: il sindacalismo rivoluzionario fu la spina dorsale non del socialismo quale lo si conosceva, ma del socialismo trasformato dalla congiunzione con il sentimento nazionale, vale a dire del fascismo. E che Michels sia stato un pre-fascista è fuori discussione. Tutta la sua vastissima opera lo testimonia dalla convergenza con le idee di Sorel e di Mussolini alla concezione del movimento politico incarnata dal partito fascista.
Le masse, michelsianamente, trovarono nel fascismo lo strumento che cercavano ed in Mussolini la guida che prima non erano riuscite a trovare. Con l’avvento del fascismo, la complessiva legge delle oligarchie veniva confermata dalla realtà politica. Ed insieme con Michels, sia pure da un’altra prospettiva, Vilfredo Pareto aveva avuto la stessa visione.
Va pure detto, come ha osservato Gennaro Sangiuliano, che pure a distanza di ottantasette anni dalla sua scomparsa, non è semplice inquadrare immediatamente l’opera di Michels. “La vita di uomo libero dagli schemi – osserva Sangiuliano – lo ha penalizzato soprattutto nel secondo dopoguerra, quando, con una chiusura ideologica seguente alla tragedia del conflitto, è stato frettolosamente bollato per le sue simpatie fasciste, che indubbiamente ci furono, ma non meno di tanti altri intellettuali. Per molto tempo la sua opera è stata ignorata nonostante riflettesse un’epoca storica contrastata e travagliata”.
Oggi con rimpianto leggiamo Michels. La sua Sociologia del partito politico sembra un breviario scritto molti secoli fa: i partiti hanno occupato l’occupabile; non sono le élites a guidarli, ma approssimativi mercanti della politica; da essi promana la febbre partitocratica. Chiamiamo acriticamente tutto ciò democrazia, svuotando ed umiliando la stessa nozione di Governo o potere del popolo. Nella nostra epoca, conclude Sangiuliano, corrosa dalla dittatura del politicamente corretto, oltre che dalla cancel culture, “le oligarchie proliferano, non accettano la dialettica democratica, stroncano ogni forma di dissenso e liquidano quasi come una forma di pazzia chiunque la pensi diversamente da loro”.
Questa «nuova dimensione» della democrazia avrebbe “spaventato” Michels, osservò Carlo Curcio nell’affettuoso ricordo dell’amico, aggiungendo che in fondo «egli era un romantico. Probabilmente rimpiangeva davvero i vecchi tempi, quando un partito era un club o era appena un programma sostenuto da pochi fanatici. Era un romantico e un idealista. Forse dispiacerebbe a Michels, se fosse vivo, sentirsi definire così. Ma forse no.
Molte, troppe cose sono cambiate, perché egli avesse potuto sentirsi ancora ottimista come sempre. È vero, Michels sperava sempre nel meglio, credeva che il meglio sarebbe venuto. E riteneva che la sua opera di sociologo, sia pure in minima parte, avrebbe potuto aiutare l’avvento di una società migliore, meno materialista, meno massificata, più spiritualizzata. Strano per un sociologo che era anche un economista e studioso di tanti fenomeni sociali: Michels credeva fermamente che le forze dello spirito fossero assai più potenti della materia».