Ribadire che Draghi deve dare risposta ai nove punti della missiva di qualche giorno fa, è solo voler surrettiziamente cambiare la natura del governo ancora in carica. Trasformarlo in quel governo politico che non era nella testa di Mario Draghi, ma soprattutto nel mandato ricevuto dal Presidente della Repubblica. Il commento di Gianfranco Polillo
Situazione decisamente complicata, in attesa di mercoledì prossimo. Quando la discussione in Aula sulle dimissioni di Mario Draghi, dovrebbe scandire, in un senso e nell’altro, la fine di questa legislatura. Nel frattempo sarebbe opportuno riflettere, evitando facili congetture. Lasciamo perdere le sciocchezze Marco Travaglio: “Al governo (in 17 mesi) non ha combinato quasi nulla e quel poco era sbagliato”. Contro queste affermazioni vi sono le pressioni di mezzo mondo, salvo russi e filo russi, che invitano il presidente del Consiglio a resistere. Sì: a resistere contro i grandi strateghi (Taverna, Casalino e Ricciardi) del partito di Conte.
Riavvolgiamo per un momento il nastro, ricordando i fatti salienti di una legislatura fuori dal normale. Le elezioni del 2018 avevano prodotto un cataclisma. I 5 Stelle primo partito, con oltre il 32 per cento dei voti. La Lega, a sua volta, aveva detronizzato Forza Italia sul fronte opposto. Dopo una breve incubazione, il governo Conte I: una prima anomalia considerato l’opposta collocazione politica dei due improvvisati alleati. La seconda, dovuta alla presenza, in assoluta posizione di comando, di un “perfetto sconosciuto”: l’avvocato del popolo. Non un presidente del Consiglio, che nella pienezza dei suoi poteri (articolo 95 Cost.) “dirige la politica del governo”, ma un semplice notaio, costretto a mediare tra i due effettivi titolari: Matteo Salvini da un lato e Luigi Di Maio, dall’altro.
Nelle more della nomina, l’episodio Paolo Savona. La contrarietà di Mattarella contro l’ipotesi di una nomina di quest’ultimo a ministro dell’Economia. La minaccia di Di Maio su un improbabile impeachment. Carlo Cottarelli che scalda i motori, nel caso in cui la crisi non si ricomponga. Quindi la scelta di Giovanni Tria a Via XX Settembre, come second best. E infine il governo che inizia a navigare. Ma per poco: durerà solo 461 giorni.
Le dimissioni avvengono il 20 agosto 2019. Il 5 settembre, appena 15 giorni dopo, il Conte II. Il re è morto – dicono gli inglesi – lunga vita al re. Ma in questo caso si è andati oltre. Giuseppe Conte è sempre lo stesso: capo della maggioranza giallo-verde e subito dopo capo di quella rossa-gialla. Come faccia lo stesso presidente del Consiglio a dirigere due contrapposte maggioranze politiche rimarrà il mistero di quegli anni. Poco indagato, per la verità, a seguito dell’esplosione del coronavirus. Che sarà il grande alleato del nuovo governo. Nel solo 2020 il debito pubblico italiano sul Pil aumenterà di oltre 20 punti base. Il salto più alto dal lontano 1980.
Questa volta il governo rimane in carica 527 giorni. Ma le ultime settimane sono un inferno. Matteo Renzi aveva deciso di togliere la spina, sennonché consistenti manovre di palazzo (cambiamenti di casacche, improbabili responsabili, vecchie figure della Prima Repubblica) aveva dato il meglio di sé. Fino a suscitare un disgusto generalizzato. Per contrastare il quale ed evitare uno scioglimento anticipato della legislatura era sceso in campo lo stesso Presidente della Repubblica, che si era preoccupato di rendere esplicito il perché di un nuovo inedito tentativo. Che non poteva che avere caratteristiche completamente diverse rispetto a quanto fino ad allora sperimentato.
Ed ecco allora la formula trovata (27 febbraio 2021): “Avverto, pertanto, il dovere – aveva detto il Presidente ancor prima di conferire formalmente l’incarico a Mario Draghi – di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Nasceva così il governo di unità nazionale, aperto a tutte le forze presenti in Parlamento. Lo voteranno tutti: esclusi Fratelli d’Italia e la sinistra-sinistra di Fratoianni. E sarà subito il “governo dei migliori”, secondo la velenosa definizione di Marco Travaglio.
Ma, a parte il dolore inconsolabile delle vedove del Conte II, sarà proprio la composizione del governo a marcare la formula politica, indicata da Mattarella. Dei 23 ministri, un terzo indipendenti (interni, economia, giustizia, innovazione, infrastrutture, scuola, università, transizione ecologica), poco più della metà (3 per ciascuno) appartenenti alle quattro forze politiche maggiori ed resto (uno per ciascuno) a quelle minori. Con gli indipendenti, salvo gli esteri, destinati ad occupare le posizione principali.
L’errore di Giuseppe Conte è stato quello di aver voluto trasformare un “governo di alto profilo”, che rispondeva ad un’esigenza nazionale, in un semplice governo di coalizione. Con l’aggravante di aver voluto la rottura su un argomento minimalista, come il termovalorizzatore di Roma. Vicenda che all’estero non solo non è stata compresa. Ma considerata una stravaganza destinata a nascondere chissà quali altri fini. Fini che le ambigue posizioni, contro l’invio di armi a favore della resistenza dell’Ucraina, avevano già appalesato.
Ancora oggi Conte, nel tentativo di scaricarsi d’ogni responsabilità, cerca di giustificare quella scelta: non era contro Draghi, ma contro la decisione del sindaco di Roma, dando prova di non saper troppo maneggiare i profili di carattere costituzionale. L’apposizione del voto di fiducia, da tempo immemorabile, fa venir meno ogni altra considerazione di merito. Si vota solo per stabilire se il rapporto fiduciario, con la maggioranza parlamentare, esista ancora. Il merito è sussulto nella precedente valutazione collegiale del Consiglio dei ministri, (legge 400/88) che, decidendo di chiedere la fiducia, lo ha ritenuto essenziale per la continuità dell’esecutivo.
Ma è tutto un perseverare nell’errore. Ribadire che Draghi deve dare risposta ai nove punti della missiva di qualche giorno fa, è solo voler surrettiziamente cambiare la natura del governo ancora in carica. Trasformarlo in quel governo politico che non era nella testa di Mario Draghi, ma soprattutto nel mandato ricevuto dal Presidente della Repubblica, successivamente avallato dal voto di fiducia del Parlamento. Un tentativo che difficilmente potrà avere successo. Non perché Draghi sia troppo rigido, ma per il semplice fatto che non può essere quello il suo ruolo. L’ex Bce tutto può essere meno che un politico. E lo stesso, almeno per il momento, vale per l’Italia. Che ha bisogno di tutto, ma non di un semplice esponente di partito posto a capo del suo esecutivo.